Cronaca e politica estera [Equilibri mondiali] Thread unico.
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A trump per primo fa comodo tenere viva la minaccia Russa, gli infiniti miliardi per l'inutile riarmo dei paesi UE passano dal paese delle opportunità
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una sentenza....
non ne sta sbagliando una Travaglio da 2 anni a questa parte
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O la faccia o la vita
di Marco Travaglio
Tutti sanno come finirà l’assedio russo a Pokrovsk: con la resa o con lo sterminio degli ucraini circondati e minoritari (uno contro otto). Come le battaglie di Mariupol, Bakhmut, Avdiivka e il blitz della regione russa di Kursk. Tutti conoscono pure il finale della guerra: la Russia si terrà i territori che voleva (quelli filorussi di Lugansk, Donetsk, Zaporizhzhia e Kherson, più un cuscinetto di confine tra Sumy e Kharkiv) in cambio di quelli occupati in sovrappiù. Che Kiev non avrebbe riavuto i territori perduti lo disse il generale Usa Milley nel novembre 2022, dopo la prima e unica vera controffensiva ucraina. Lo ammisero gli 007 ucraini due anni fa, dopo il tragico flop della seconda. Lo confessò Zelensky 11 mesi fa. Ma nessuno, a Kiev come nell’Ue nella Nato, voleva perdere la faccia: quindi si continuò ad armare e finanziare l’Ucraina senza spiegare ai poveri soldati rimasti vivi che non erano fuggiti dal fronte e dalla leva perché dovessero ancora combattere e morire.
La panzana di Putin che vuole l’intera Ucraina è incompatibile con gli appena 180 mila soldati inviati nel 2022 contro un esercito grande il triplo, con le aperture fatte un mese dopo ai negoziati di Istanbul e con la logica (il centro-ovest russofobo, anche se lo avesse occupato, avrebbe faticato a mantenerlo, pieni com’è di armi, mercenari e terroristi neonazisti). Ma fa comodo a chi ha perso la guerra per fingere di averla vinta e giustificare le centinaia di migliaia di vite e di miliardi sacrificati per difendere una causa persa, anziché negoziare e salvare il salvabile.
La propaganda occidentale, come le sanzioni, danneggia chi la fa e crede alle balle che racconta. Tanto a morire sono solo gli ucraini. L’unico a dire la verità (“Zelensky non ha più carte”) è Trump, il più grande bugiardo del mondo che però è l’unico in Occidente a non rischiare la faccia: la guerra non l’ha mica voluta lui. Tutti gli altri fischiettano, raccontando coi loro trombettieri che Pokrovsk resiste (come Mariupol, Bakhmut, Avdiivka). Ma già si preparano a minimizzarne la caduta come la volpe con l’uva: “Tanto è solo un cumulo di macerie”. Fingono di non sapere che i russi non assediano Pokrovsk da 14 mesi perché attratti dalle bellezze del luogo: ma perché la città è l’ultimo avamposto della Maginot a ferro di cavallo che la Nato dal 2014 ha creato in Donbass per evitare che gli indipendentisti e poi i russi dilagassero nelle grandi steppe indifese dell’Ucraina centrale. Oltre quella linea non ci sono più ostacoli verso Dnipro e la Capitale. Questo Zelensky e i vertici di Nato e Ue lo sanno benissimo. Se si decidessero a dirlo e ad agire di conseguenza salverebbero migliaia di vite. Ma la loro priorità è un’altra, quella di sempre: salvare la faccia e la poltrona.
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Sì di Trump a Orban, petrolio russo all’Ungheria per un anno. L’ira di Zelensky
Donald Trump ha accettato di concedere all'Ungheria una deroga annuale alle sanzioni americane legate all'importazione di petrolio russo. «Importante risultato dell'incontro di oggi (tra il Presidente americano e il leader ungherese): gli Stati Uniti hanno concesso all'Ungheria un'esenzione illimitata dalle sanzioni sul petrolio e gas russo. Siamo grati per questa decisione che garantisce la sicurezza energetica dell'Ungheria», ha scritto su X il ministro degli Esteri ungherese Peter Szijjarto. L'Ungheria importa l'86% del suo petrolio dalla Russia, una quantità che è aumentata da quando Mosca ha lanciato la sua invasione dell'Ucraina nel 2022.
Sulla questione è intervenuto anche Volodymyr Zelensky. L'Ucraina «non può permettere» alla Russia di trarre profitto dalla vendita di petrolio all'Ungheria», ha detto il presidente ucraino.
Trump ha dato ragione a Orban sull’immigrazione: «Ha avuto ragione sull'immigrazione. Guardate, invece, cosa è successo in Europa. La stanno inondando», ha dichiarato il presidente americano. «Se andate in alcuni Paesi, ora sono irriconoscibili a causa di ciò che hanno fatto. E l'Ungheria è molto riconoscibile», ha incalzato. Orban, naturalmente, ha difeso la sua posizione e ha attaccato duramente le sanzioni finanziarie imposte da Bruxelles all'Ungheria per aver sfidato l'Unione sull'immigrazione.
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In guerra si avanza di grado più velocemente, intanto per le capacità che un ufficiale mostra sul campo e poi anche per le perdite e la necessità di riempire i quadri superiori.
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E' tutto giusto, nel senso che è da tempo che si va descrivendo la sinistra come completamente avulsa dal reale e preda di fumi ideologici ormai completamente disattivati...ma in quelle analisi non si tiene in conto che in Europa la grossa questione è quella della immigrazione e della percezione profonda di una perdita identitaria e di "sicurezza"...mentre Mamdani è stato votato proprio da tutta quella turba multicolor di cui New York è stracolma e non dal "lavoratore bianco" dimenticato "per strada" dalla sinistra della finanza, del globalismo, del turbocapitalismo e dei "diritti" per le minoranze rovesciatesi in astrazioni sul lontano e dimenticanza e ignoranza del prossimo.
Anche in quell'articolo non trovo una riga al tal riguardo, ma in Germania l'AfD cresce sulla scorta della propaganda identitaria; in Francia la destra idem; in Inghilterra pure, e in Italia uguale, anche se poi il governo Meloni, destra all'acqua di rose, sul punto nel concreto fa poco o nulla o niente di realmente efficace.
Mamdani si è rivolto ai disperati del melting pot della mega metropoli, mentre in Europa sono proprio quelli il problema che i popoli vorrebbero risolvere e che per questo sostengono e gonfiano le vele dei partiti identitari, reazionari e radicali.
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Una lezione per la sinistra
Non c’è un modello Mamdani pronto per essere esportato in Italia. Ma si può trarre un insegnamento da ciò che è accaduto ai democratici americani
La prima tentazione da evitare è credere che ci sia un modello Mamdani pronto per essere esportato. Che basti copiare cinque idee pensate per rispondere ai bisogni di una città complessa come New York, farle viaggiare su un volo di linea verso l’Italia e applicarle al nostro Paese. Non è così e sarebbe davvero troppo facile pensarlo, ma questo non significa che non si possano trarre lezioni da quel che è appena accaduto ai democratici americani. E cioè di scoprirsi ben più vivi di quanto credessero.
Ben Rhodes, analista politico e a lungo consigliere di Barack Obama, ha scritto: «Mamdani è stato quel che molti politici, studi legali, università, media company, non sono stati. Totalmente, completamente, autenticamente senza paura».
Il candidato democratico ha sfidato apertamente la visione di Donald Trump, non si è fatto fermare dalla demonizzazione delle sue idee “socialiste”, le ha portate avanti con la capacità di difenderle in ogni contesto: su una strada del Bronx, su una metropolitana nel Queens, a colloquio con un rabbino o davanti al pubblico di Fox News.
Senza mai cambiare il messaggio, ma con la capacità di entrare in connessione con pezzi di elettorato molto diversi. Di rispondere alle paure di chi temeva la sua identità o le sue idee, di convincere chi aveva smesso di credere alla capacità di cambiare le cose semplicemente con il voto. Lo ha fatto con un carisma innato, ma anche con un gruppo di giovanissimi volontari che è stato in grado di mobilitare e motivare anche quando era solo all’un per cento dei sondaggi in corsa per le primarie.
Non ha distrutto il Partito democratico, lo ha scalato. Ha vinto la candidatura, poi ha convinto chi temeva la sua radicalità usando la sua identità forte non per escludere, ma per includere. Non per rappresentare un piccolo pezzo di New York, ma per intercettare i bisogni della maggioranza dei suoi abitanti.
È qui la lezione. Le ricette della buona politica non si trovano in giro, si costruiscono dal basso. Un anno fa Mamdani era su una strada del Bronx con un cartello in mano, a parlare con persone che avevano votato Trump perché era nel tycoon che vedevano un cambiamento. Non le ha messe da parte, non le ha trattate da nemici, ha cercato di capire le loro ragioni e ne ha fatto un programma politico.
E quali erano, queste ragioni? Il costo della vita troppo alto, l’esclusione sociale, la paura di perdere quel poco che si ha a vantaggio di altri, il disorientamento in un mondo che corre troppo veloce e che sembra volerti far cadere giù.
Mamdani ha dimostrato che a questi timori si può rispondere da sinistra ed è qui l’importanza della sua vittoria. Nell’aver rotto l’incantesimo che vedeva gli esclusi magicamente attratti da chi non ha nulla a che fare con loro, e nulla farà davvero per loro, tranne indicare qualche capro espiatorio su cui riversare rabbia e odio. E nell’aver infranto un tabù: perfino nella terra del capitalismo più sfrenato, non è sacrilego chiedere un riequilibrio tra lavoro e rendita. E quindi tassare chi guadagna oltre un milione di euro per dare assistenza sanitaria gratis ai bambini di lavoratori che non arrivano a fine mese.
Abbiamo vissuto per anni — anche a sinistra e anche in Europa — nell’illusione che il mercato si sarebbe autoregolato e che la crescita avrebbe condotto al miglioramento delle condizioni di tutti. Ma in quella visione qualcosa è andato storto: il mercato fa per lo più gli interessi degli azionisti e dei fondi che lo animano e le persone sono schiacciate da disuguaglianze crescenti che minano la società al suo interno perché disseminano fragilità sociale, disagio, paura.
Quel che accade oggi in Italia, come in gran parte d’Europa, è che in quella sofferenza peschi benissimo la destra perché ha un’idea forte da proporre: la protezione dal diverso, il ritorno al passato, l’identità religiosa che consola. Quel che serve è una visione altrettanto forte a sinistra. Ma non può essere quella di Mamdani, o del governatore californiano Newsom, o delle nuove governatrici della Virginia e del New Jersey.
Per trovarla bisogna mettersi in ascolto della realtà qui e ora. Tornare nelle periferie, salire sugli autobus, prendere i treni dei pendolari, provare a vivere in un’area interna dove una bufera può tenerti fuori dal mondo per giorni o dove i ragazzini devono alzarsi alle 5 per andare a scuola. Scegliere le proprie battaglie e poi perseguirle senza passi indietro, aggiustamenti, timidezze. Assomigliare il più possibile a quel che si dice. Crederci, perfino.
L’assistenza sanitaria gratis per i bambini noi l’abbiamo già, abbiamo un welfare che l’America — appunto — sogna, ma non possiamo non vedere quanto sia in pericolo e sempre meno capace di proteggere tutti. Quante persone restino scoperte dalla sanità pubblica in troppi luoghi del Paese, quanto si stia minando l’istruzione con riforme mai pensate per i ragazzi, ma solo per mettere tranquilli gli adulti. Quanto il lavoro dipendente faccia fatica con salari bassi e inflazione che sale, quanto la burocrazia intralci chi vuole crescere e fare impresa. Quante fragilità esistano senza che nessuno se ne faccia carico. Servono idee forti e gambe altrettanto forti su cui farle camminare.
Serve speranza da portare a chi non ne ha e non vota più, perché è solo da lì che potrà arrivare un’energia nuova. E serve un volto che sappia incarnare tutto questo, come Mamdani. Senza paura.
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Il colonnello trincerato a Pokrovsk: «Lottiamo casa per casa. I russi ci sovrastano in numero, ma noi resistiamo. Per ora»
Il colonnello ucraino Kmytiuk trincerato nella città: «Non siamo alla fine. Il vero incubo? È in corso una gigantesca sfida per il controllo dei cieli, dominata dai droni»
«Si combatte la classica battaglia urbana nell’era dei droni. Piccolissime unità, tre o quattro uomini, si muovono tra le macerie e gli edifici ancora in piedi. È la sfida casa per casa, cantina per cantina, non sai mai cosa c’è di fronte a te, o dietro. Giornate stressanti, con il meglio dei battaglioni russi che sono penetrati in città. Per ogni soldato nostro o loro l’incubo peggiore sono i droni. Nei cieli si sentono ronzare di continuo e non sappiamo se siano loro o nostri».
Il tenente colonnello 32enne Mykhailo Kmytiuk da Pokrovsk ci racconta gli scenari di quello che in questo momento è il campo di battaglia più sanguinoso e rilevante dell’intero teatro di guerra russo-ucraino. Mykhailo, nome di battaglia Michel, comanda la «Taifun», l’unità specializzata nell’utilizzo dei droni e inquadrata nei ranghi della Guardia Nazionale, si trova in questo settore dall’ottobre 2024: riusciamo a parlargli mentre si muove con la sua jeep.
Da Mosca dicono che siete circondati e Pokrovsk cadrà presto nelle loro mani. Gli ucraini stanno perdendo?
La situazione resta difficile. Ma un poco meglio che tre o quattro giorni fa, abbiamo ricevuto rinforzi e nuove armi. La guerra urbana continua, molto crudele. Ma adesso per noi appare più stabile e più sotto controllo di prima. Siamo anche riusciti a fermare l’attacco russo in zone limitrofe come Dobropillia. Ma è ovvio che Putin vorrebbe prendere tutto il Donbass per poi concentrarsi su Zaporizhzhia».
Come reagiscono i russi all’arrivo dei vostri rinforzi?
«Stanno attaccando e lo fanno intensificando i lanci di droni e bombe plananti, che vengono tirate dagli aerei lontano dal fronte e arrivano in planata molto veloce, difficili da colpire. Noi non abbiamo ancora risposte precise a questi tipi di arma».
Ma perché per voi ora andrebbe meglio?
«Sono arrivati i ricambi per migliaia di soldati che erano davvero esausti in tutte le unità, possiamo avvicendarci».
Mosca sostiene che siete totalmente circondati…
«Non è vero, possiamo ancora entrare e uscire dalla città, sebbene con enormi difficoltà. Anche per loro i movimenti sono complicati e molto pericolosi. Lo vedo tutte le volte che osservo gli schermi nel nostro bunker comando: è in corso una gigantesca sfida per il controllo dei cieli dominata dai droni».
Le fonti aperte degli osservatori militari americani valutano che i russi controllino almeno il 60 per cento dell’area urbana. Conferma?
«Impossibile dire, c’è una gigantesca area grigia tra le case dove le pattuglie russe e ucraine stanno combattendo. Il fronte cambia di minuto in minuto».
In primavera noi giornalisti potevamo ancora visitare Pokrovsk, i russi si trovavano a una decina di chilometri dalle periferie orientali. Come mai verso fine luglio sono riusciti a entrare?
«Mosca ha bombardato con ordigni giganteschi, pesanti oltre tre tonnellate. Poi hanno inviato il meglio delle loro brigate, con unità speciali addestrate per la guerriglia urbana».
Si stimano 170 mila soldati russi concentrati nella zona. Concorda?
«Crediamo anche di più».
E quanti civili restano dei 60 mila abitanti originari?
«Purtroppo ancora tanti, credo 3 o 4 mila. Per noi rappresentano un problema: non sappiamo se stiano con noi, oppure con i nemici. Temiamo che chi resta diventi spia e informatore dei russi, rivelano ai loro cecchini le postazioni dei nostri soldati. Ogni volta che li incontriamo nelle cantine, nascosti, cerchiamo di parlare con loro, di capire cosa pensino, ma è difficile. E la domanda è sempre la stessa: perché restate, visto che la morte è tutta attorno a voi?».
Cosa può dire dei soldati caduti, davvero i russi perdono tanti uomini?
«Impossibile dare un quadro generale. Posso dire che la nostra unità nel suo settore ha di fronte un centinaio di soldati russi e in media ne uccide 2-3 al giorno, i feriti sono tra gli 8 e 12. Noi per lo più subiamo feriti perché siamo trincerati».
Ma quanti sono i vostri caduti?
«Abbiamo molti feriti leggeri e una media quotidiana di 2 o 3 gravi».
Putin vorrebbe occupare Pokrovsk entro la fine dell’anno: ci riuscirà?
«Mi sembra ancora una storia lunga. Certo è che i russi hanno tanti soldati e ne continuano a inviare».
Che armi vi mancano?
«Ci servono droni ad ala fissa, che possono colpire le retrovie russe, anche a 20 chilometri dal fronte dove sono le loro basi e soprattutto i comandi dei loro droni. La novità è che adesso l’area pericolosa si è allargata parecchio, supera i 25 chilometri e dunque occorrono droni dotati di maggiore autonomia».
Corriere.it
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anzi si fanno beffe della polizia dicendo che non sapevano fosse il louvre, poi questo didou bitume era già una mezza celebrità sui social e ora grazie al furto sarà aumentata, magari un domani ci faranno anche un film
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La questione è che i gioielli non si trovano e che questi tizi non cantano, cioè non fanno i nomi del mandante o dell'intermediario tra il committente ed i ladri...forse per non perdere la ricompensa...d'altra parte è un furto senza feriti, quanto potranno dargli ai ladri? 10 anni? Forse meno con sconti e altro...e quando escono, se stanno zitti, avranno la loro parte.
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sì ma si pensava fossero dei geni del crimine, scrivevate colpo da cinema fatto nel tempo di una doccia, poi esce che a beffare il museo più famoso del mondo è stato uno sbandato rubagalline
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uno dei tanti che vengono a pagarci le pensioniOriginariamente Scritto da Arturo Bandini Visualizza Messaggio
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Che cosa significa «socialismo» a New York?
Riuscirà Mamdani ad applicare il suo programma radicale? Dai blocchi dei fitti agli autobus gratuiti, qual è la visione di «socialismo reale» del nuovo sindaco di New York
di Federico Rampini
Che cos’è esattamente il «socialismo» di cui parla il nuovo sindaco di New York? Questa parola pluricentenaria ha storie, significati e risonanze diverse in America e in Europa, a maggior ragione tra Oriente e Occidente. Si presta facilmente a equivoci, molti italiani possono pensare che non esista un vero movimento socialista negli Stati Uniti, patria del capitalismo. Oppure si può pensare che sia uno slogan privo di conseguenze concrete: come può un semplice sindaco di una città «realizzare il socialismo»?
Mamdani però è un vero socialista, nel senso più radicale di questo termine, ieri sera nel suo discorso della vittoria ha citato Eugene Debs (1855-1926), fondatore del Socialist Party of America, e più volte candidato alla Casa Bianca. In quanto alla fattibilità: in America c’è un federalismo molto più spinto che in qualunque Paese europeo, il sindaco della Grande Mela ha vasti poteri di governo, amministra una città che ha la popolazione del Belgio, il Pil dell’area metropolitana newyorchese è leggermente superiore a quello del Canada.
Il socialismo di Mamdani si traduce in una concreta piattaforma di governo della città. Ne ricordo i punti principali che lui stesso ha ribadito ieri sera nel discorso della vittoria. Blocco dei fitti in una parte cospicua degli alloggi cittadini. Autobus gratuiti. Gratuità anche per tutte le forme di asili-nido e scuole materne per i bambini da sei settimane a cinque anni di età (quando subentra la scuola pubblica già oggi gratuita). Infine supermercati di proprietà o gestione municipale per far scendere il costo di tutti i generi di prima necessità.
Si tratta di un programma effettivamente radicale, in una metropoli che ha già conosciuto esperimenti di sinistra rilevanti. Bill De Blasio creò il pre-kindergarten gratuito cioè la pre-scuola materna. Tagliò fondi alla polizia all’epoca di Black Lives Matter. Sotto De Blasio e poi Eric Adams (i due ultimi sindaci, tutti e due democratici) è stato in vigore a lungo il programma di accoglienza e assistenza degli immigrati clandestini – cioè illegali ai sensi della legge federale, che New York ignora dichiarandosi «città-santuario» – in particolare l’alloggio in alberghi presi in affitto a spese del comune, nonché un reddito di cittadinanza erogato tramite carte di debito. Infine i programmi di assistenza e ospitalità per homeless sono già da molti anni tra i più generosi d’America e del mondo.
Le obiezioni al socialismo di Mamdani durante la campagna elettorale sono state molteplici. Ricordo le più frequenti. I blocchi dei fitti, già applicati nel passato in varie circostanze, hanno ulteriormente ridotto gli incentivi all’investimento privato nella costruzione di case, peggiorando il problema della penuria di alloggi. Alcuni sindaci (Michael Bloomberg) usarono un compromesso pragmatico: concedere più permessi per la costruzione di grattacieli di lusso, a condizione che i palazzinari costruiscano anche case popolari; in parte funziona, però impone di «scendere a patti col diavolo», cioè fare accordi col grande capitalismo immobiliare. Sugli autobus gratuiti c’è l’infausto precedente di Kansas City dove l’esperimento ha provocato una tremenda escalation di aggressioni ai conducenti: la gratuità ha trasformato i bus cittadini in alloggi permanenti per homeless, tossicodipendenti.
In generale, il programma di Mamdani ha dei costi molto elevati. New York è ricchissima, ma ha già una pressione fiscale record, perché impone ben tre Irpef, a strati: l’imposta progressiva sul reddito con l’aliquota federale (uguale in tutti gli Stati Uniti), più un’addizionale dello Stato di New York, più un addizionale della città stessa. Se si aggiunge la Property Tax sulla casa – una vera e propria patrimoniale – si arriva a una pressione fiscale di livello scandinavo… senza che a questo prelievo altissimo corrisponda una qualità del servizio pubblico adeguata.
CorSera
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più che per il suo essere musulmano, al contrario di quanto accade in uk, è stato votato perchè in una città cara come new york promette una sorta di graduidamente grillino, in teoria a spese dei ricchi che però secondo molti risponderanno picche andandosene in massa e la città sarà abitata da poveri e impoveritaOriginariamente Scritto da Sean Visualizza MessaggioGli elettori bypassano il partito democratico e si buttano nella sinistra socialista, cioè estrema...un pò come quella di Melenchon in Francia. La politica si polarizza verso le ali radicali e al tempo stesso si personalizza, altro indice del declino dei partiti "classici", in quanto è chiaro che qua è stata votata la novità Mamdani che non è espressione di nessun partito.
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