Come sta la Francia? Un Paese in crisi tra problemi reali e «declinismo»
Conti pubblici disastrati, nascite in calo e scuole in declino, tensioni sui migranti. E domani in strada c’è il «blocchiamo tutto»
Per capire il grado di rabbia e disincanto fino alla derisione nei confronti dei politici, specie quelli in giro da cinquant’anni come François Bayrou, bisogna notare che ieri intorno alle 20.30 mentre il premier a Matignon salutava i ministri con uno champagne di addio per ringraziarli dei «nove mesi di profonda felicità passati assieme», a Parigi ma anche a Marsiglia, Digione, Nimes, ovunque in Francia, migliaia di persone si sono ritrovate in strada per brindare a loro volta, sia pure senza champagne, alla partenza di Bayrou, profondamente felici di non doverlo più vedere.
Un uomo che per tutta la vita ha giocato con i codici del maestro elementare di provincia, di buon cuore, severo quando serve ma in fondo amico di tutti, sbeffeggiato come un tiranno mentre il Paese è sull’orlo del fallimento.
Le birre e i festeggiamenti di ieri sera sono stati una specie di allenamento in vista della giornata del bloquons tout, il «blocchiamo tutto» di domani che promette di fermare la Francia con scioperi, manifestazioni e atti di protesta vari, dal non usare più bancomat e carte di credito per boicottare il sistema bancario a — temono i servizi e il ministero dell’Interno — gesti forse di maggiore impatto simbolico e soprattutto maggiore violenza, in vista dello sciopero generale già indetto dai sindacati per il 18 ottobre.
La Francia è un Paese attraversato dalle stesse contraddizioni di tanti partner europei, con una qualità della vita ancora per certi versi invidiabile e una struttura economica che non è improvvisamente diventata quella di un Paese in via di sviluppo. Ma i conti pubblici disastrati e mesi di drammatizzazione del dibattito politico dipingono un quadro spaventoso.
Nel pantano di rivendicazioni e accuse di tutti contro tutti che è diventata la politica francese, nel quale persino il pacato Bayrou è costretto a parlare di «catastrofe imminente» per provare a salvare la poltrona, il racconto della Francia diventa quello di un Paese (forse) ancora più disastrato di quanto non sia realmente.
L’elenco nell’ultimo discorso pronunciato ieri dal premier è impietoso: dal 2000 la Francia produce molto meno dei vicini europei, la scuola che era il vanto nazionale è in declino dalle elementari all’università, il modello sociale è da reinventare perché la popolazione è scarsa e vecchia (la demografia, altro ex fiore all’occhiello dell’«eccezione francese», è ormai ferma anche qui), le migrazioni provocano problemi di identità nazionale, il Paese è indebitato e oltretutto il 60 per cento dei creditori sono stranieri, da 51 anni la Francia è in deficit...
Una litania deprimente pronunciata da un uomo che era ministro già nel 1993, ma ha snocciolato le magagne come se finora avesse abitato su Marte.
Se questa è la visione dell’ormai ex governo, figurarsi quella delle opposizioni. La sinistra moderata che spera di esprimere il successore di Bayrou evoca allora un Paese diventato il regno delle diseguaglianze — che smacco per Liberté, Égalité, Fraternité —, dove negli ultimi trent’anni il patrimonio delle prime 500 fortune del Paese è aumentato di 14 volte e dove basterebbe imporre la «tassa Zucman» (2% sui 1.800 francesi con un patrimonio oltre 100 milioni di euro) per trovare 20 dei 40 miliardi che mancano.
La destra tentata dal lepenismo denuncia invece l’estensione dei «territori perduti della Repubblica», le banlieue dove comandano gli islamisti o i narcotrafficanti o entrambi. In questi giorni di ritorno a scuola, la notizia che gli spacciatori offrono quaderni, penne e zaini gratis alle famiglie di periferia è la versione brutale, e concreta, della formula «modello sociale in crisi» usata da Bayrou.
Nei prossimi giorni la Francia è chiamata a darsi un nuovo governo, affrontare questi problemi reali, certo, e anche a scuotersi da una descrizione di sé diventata declinismo e profezia che si autoavvera.
CorSera
Conti pubblici disastrati, nascite in calo e scuole in declino, tensioni sui migranti. E domani in strada c’è il «blocchiamo tutto»
Per capire il grado di rabbia e disincanto fino alla derisione nei confronti dei politici, specie quelli in giro da cinquant’anni come François Bayrou, bisogna notare che ieri intorno alle 20.30 mentre il premier a Matignon salutava i ministri con uno champagne di addio per ringraziarli dei «nove mesi di profonda felicità passati assieme», a Parigi ma anche a Marsiglia, Digione, Nimes, ovunque in Francia, migliaia di persone si sono ritrovate in strada per brindare a loro volta, sia pure senza champagne, alla partenza di Bayrou, profondamente felici di non doverlo più vedere.
Un uomo che per tutta la vita ha giocato con i codici del maestro elementare di provincia, di buon cuore, severo quando serve ma in fondo amico di tutti, sbeffeggiato come un tiranno mentre il Paese è sull’orlo del fallimento.
Le birre e i festeggiamenti di ieri sera sono stati una specie di allenamento in vista della giornata del bloquons tout, il «blocchiamo tutto» di domani che promette di fermare la Francia con scioperi, manifestazioni e atti di protesta vari, dal non usare più bancomat e carte di credito per boicottare il sistema bancario a — temono i servizi e il ministero dell’Interno — gesti forse di maggiore impatto simbolico e soprattutto maggiore violenza, in vista dello sciopero generale già indetto dai sindacati per il 18 ottobre.
La Francia è un Paese attraversato dalle stesse contraddizioni di tanti partner europei, con una qualità della vita ancora per certi versi invidiabile e una struttura economica che non è improvvisamente diventata quella di un Paese in via di sviluppo. Ma i conti pubblici disastrati e mesi di drammatizzazione del dibattito politico dipingono un quadro spaventoso.
Nel pantano di rivendicazioni e accuse di tutti contro tutti che è diventata la politica francese, nel quale persino il pacato Bayrou è costretto a parlare di «catastrofe imminente» per provare a salvare la poltrona, il racconto della Francia diventa quello di un Paese (forse) ancora più disastrato di quanto non sia realmente.
L’elenco nell’ultimo discorso pronunciato ieri dal premier è impietoso: dal 2000 la Francia produce molto meno dei vicini europei, la scuola che era il vanto nazionale è in declino dalle elementari all’università, il modello sociale è da reinventare perché la popolazione è scarsa e vecchia (la demografia, altro ex fiore all’occhiello dell’«eccezione francese», è ormai ferma anche qui), le migrazioni provocano problemi di identità nazionale, il Paese è indebitato e oltretutto il 60 per cento dei creditori sono stranieri, da 51 anni la Francia è in deficit...
Una litania deprimente pronunciata da un uomo che era ministro già nel 1993, ma ha snocciolato le magagne come se finora avesse abitato su Marte.
Se questa è la visione dell’ormai ex governo, figurarsi quella delle opposizioni. La sinistra moderata che spera di esprimere il successore di Bayrou evoca allora un Paese diventato il regno delle diseguaglianze — che smacco per Liberté, Égalité, Fraternité —, dove negli ultimi trent’anni il patrimonio delle prime 500 fortune del Paese è aumentato di 14 volte e dove basterebbe imporre la «tassa Zucman» (2% sui 1.800 francesi con un patrimonio oltre 100 milioni di euro) per trovare 20 dei 40 miliardi che mancano.
La destra tentata dal lepenismo denuncia invece l’estensione dei «territori perduti della Repubblica», le banlieue dove comandano gli islamisti o i narcotrafficanti o entrambi. In questi giorni di ritorno a scuola, la notizia che gli spacciatori offrono quaderni, penne e zaini gratis alle famiglie di periferia è la versione brutale, e concreta, della formula «modello sociale in crisi» usata da Bayrou.
Nei prossimi giorni la Francia è chiamata a darsi un nuovo governo, affrontare questi problemi reali, certo, e anche a scuotersi da una descrizione di sé diventata declinismo e profezia che si autoavvera.
CorSera
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