Cronaca e politica estera [Equilibri mondiali] Thread unico.

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  • zuse
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    Travaglio è sempre stato critico verso gli USA, il loro imperialismo mascherato da azioni virtuose a favore delle nazioni dove hanno esportato democrazia, la loro ipocrisia, il controllo che esercitano sull'Europa e la loro ignoranza come popolo.

    Il riferimento al Trump pacificatore era proprio in merito all'Iran, che già mesi fa Bibi (come lo chiama il fidanzato Kurt) voleva attaccare e Trump gli aveva detto no e di non pensarci minimamente.
    Un giornalista deve adeguarsi a quello che sente e quello commentare. Se poi Trump ha cambiato idea ( ecco quello era prevedibile per n motivi, ha peccato di ingenuità il nostro faccinato) uno cambia opinione in merito. Mi pare infatti ieri su la 7 non ci sia andato leggero.


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  • Sean
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    Originariamente Scritto da The_machine Visualizza Messaggio


    Mesi che fa endorsement al Trump pacificatore...ma ogni tanto chiedere scusa e ammettere di essersi sbagliati?
    Divertenti anche i commenti al video.

    Su Trump-Israele Travaglio parte da un presupposto errato, un fondamentale (che stupisce un pò che lo ignori o sottovaluti) che precede ogni fatto scatenante od ogni crisi in Medio Oriente, e cioè il rapporto di stretta fratellanza tra Stati Uniti e Israele, che prescinde qualunque presidente, qualunque amministrazione, qualunque casus belli e qualunque giustezza o meno di questi ultimi: come ha detto Caracciolo recentemente, per gli USA è "semplicemente intollerabile il solo pensiero che Israele non sia la potenza dominante in Medio Oriente"...e contando su questo, Netanyahu ha avuto buon gioco nel mettere l'amministrazione Trump di fronte al fatto compiuto (l'attacco all'Iran) e quindi porre il dilemma se andare ad aiutare nel bombardare i siti sotterranei o no, perchè senza distruggere quei bunker (per raggiungere i quali Israele non ha le armi adatte) questa azione israliana si rivelerà un insuccesso, in specie se il regime iraniano dovesse reggere.

    Il video però è di un mese fa, quando ancora l'attacco non c'era stato, quindi è un pò difficile aspettarsela lì da Travaglio una chiarificazione nel merito di quelle dichiarazioni...si dovrebbe semmai andare a guardare le sue dichiarazioni odierne se ne ha fatte, per capire se e come giustifica o spiega questo possibile intervento americano in Iran.

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  • Death Magnetic
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    Originariamente Scritto da Ponno Visualizza Messaggio
    Ogni volta che ascolto Trump resto di sasso. Parla come un ritardato o bimbo di due anni.
    Roba che persino la Meloni in confronto sembra un Seneca nostrano.
    Poi rimembro che ha ormai quasi 80 anni, è demente ed è stato eletto dal popolo più idiota sulla faccia del globo terracqueo e rimpiango la morte di Harambe che ci ha messo su questa timeline
    Infatti penso che in parte si esprima così per arrivare a farsi comprendere dalla maggioranza dei suoi elettori.

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  • Sean
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    I consiglieri compatti con Trump, la destra Maga contro la guerra: cosa è successo nella Situation Room

    La riunione dei consiglieri più stretti, no a una guerra allargata, l’opzione dei raid tattici. La scettica Gabbard redarguita si riallinea a Trump. Vance fa da ponte con la frangia populista. Scontro duro tra «Fox News» e destra Maga

    Non c’è accordo totale tra i consiglieri più stretti di Trump sul coinvolgimento più ampio nella guerra in Iran, ha scritto la tv Cbs dopo l’incontro di martedì nella Situation Room, al quale hanno partecipato il vicepresidente J.D. Vance, il segretario di Stato e consigliere per la sicurezza nazionale Marco Rubio, il capo del Pentagono Pete Hegseth, l’inviato speciale Steve Witkoff, la direttrice dell’intelligence nazionale Tulsi Gabbard e il capo della Cia John Ratcliffe.

    Ma nell’amministrazione «Trump 2», nonostante si parli tanto di disaccordo tra «falchi» e «colombe», le divisioni ideologiche sono assai meno importanti che durante «Trump 1». In generale tutti appoggiano gli istinti del presidente. Decide Trump e nessun altro. Hegseth, ex veterano dell’esercito e presentatore tv, ieri al Congresso non ha dato alcuna delucidazione, a parte assicurare che se Trump ordinerà un attacco, il Pentagono «è pronto ad eseguirlo». Anche chi nella squadra ha storicamente appoggiato un approccio più muscolare ha sostenuto la diplomazia di Witkoff con Teheran. Rubio è considerato un «falco», ha detto in passato che non dovrebbe mai essere permesso all’Iran di arrivare alla soglia di arricchimento dell’uranio sufficiente per un’arma; Hegseth ha rapporti stretti con Netanyahu e si fida degli israeliani più di altri suoi colleghi; ma nessuno di due cerca di «frenare gli istinti» di Trump.

    Lo strappo (ricucito) di Tulsi

    Se ci sono differenze di opinione, la più evidente è quella di Tulsi Gabbard, veterana dell’esercito ed ex deputata del partito democratico da sempre ostile a nuove guerre all’estero (considerata possibile candidata alla Casa Bianca nel 2028). Mentre Trump tornava a Washington dal G7, una reporter gli ha fatto notare che a marzo, al Congresso, la sua direttrice dell’intelligence nazionale negò che l’Iran stesse cercando di costruire un’arma nucleare, a differenza di quanto dichiarano ora gli israeliani. «Non mi importa cosa dice — ha replicato lui — Erano molto vicini ad avere un’arma». Mentre il capo della Cia John Ratcliffe, che a Camp David l’8 giugno ha detto a Trump che Netanyahu si preparava ad attaccare l’Iran con o senza gli Usa, non ha spinto il presidente in una direzione o nell’altra, tutti sanno cosa pensa Gabbard: in quell’occasione non c’era (era in servizio con la Guardia nazionale), ma anche lei raramente spinge le sue opinioni su Trump. Secondo il sito Politico, il presidente l’avrebbe rimproverata per un video da lei twittato il 10 giugno dopo essere stata a Hiroshima, in cui avvertiva che «le elite politiche e i guerrafondai» stanno «fomentando con noncuranza la paura e le tensioni tra potenze nucleari» e che il mondo è «sull’orlo dell’annientamento nucleare». Trump l’avrebbe visto come un monito fuori luogo su Israele-Iran. Ma ora Gabbard giura che con Trump sono «sulla stessa linea» e che a marzo al Congresso lei comunque riconosceva che l’arricchimento dell’uranio è a livelli più alti che mai, vicini a quelli che servono per sviluppare un’arma.

    Il pontiere Vance

    Vance, altro veterano, sta facendo il «pontiere». Lo fa anche perché da questo dipendono le sue ambizioni presidenziali dopo Trump: deve tenere insieme una coalizione disparata — miliardari, oligarchi della tecnologia, operai, populisti nazionalisti, ex democratici — unita per ora dal carisma di Trump, ma che rischia di spaccarsi. Ha fatto il pontiere in passato tra il campo di Musk e quello di Steve Bannon; e l’altro ieri con un tweet cercava di giustificare un intervento Usa in Iran agli occhi degli isolazionisti del movimento Maga. Il vicepresidente ha espresso più volte il timore di un coinvolgimento in una guerra per il cambio di regime; poi — secondo il New York Times — ha iniziato a vedere il conflitto tra Israele e Iran come inevitabile, aprendosi alla possibilità di affiancare Israele nei raid, ma man mano che l’attacco di giovedì scorso si avvicinava è cresciuta la sua preoccupazione per una guerra più ampia e ha cercato di tenere la cooperazione limitata all’intelligence, puntando a proteggere il personale Usa nella regione. Ora Trump fa capire di immaginare raid tattici contro i siti nucleari, evitando una guerra protratta. «Nessuno parla di cambio di regime», assicura la Casa Bianca. Vance, da «pontiere», ha difeso Gabbard: «Una veterana, patriota, fedele sostenitrice del presidente e parte critica della coalizione che ha costruito nel 2024».

    Ma le spaccature più grandi sono tra le voci fuori dall’amministrazione, tra conservatori anti-Iran e la destra Maga che si scontrano in tv (e Trump guarda). Da una parte i neocon e Fox News (i presentatori Mark Levin, Sean Hannity e altri); dall’altra Tucker Carlson, Bannon e altri (con i loro programmi online). Quando il 4 giugno Witkoff, che sperava che l’accordo con l’Iran fosse vicino, ha ricevuto il no di Khamenei, Levin è andato a trovare Trump per spingerlo ad appoggiare Israele. Ieri invece Carlson ha deriso il senatore Ted Cruz dimostrando che non sa nemmeno quanti abitanti ha il Paese che vuole rovesciare. Una lotta sull’intervento in guerra ma anche sul futuro del trumpismo.

    ​CorSera

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  • Sean
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    Il punto della situazione, ad ora

    (Gianluca Mercuri) «I may do it, I may not do it».

    Donald Trump sfoglia la margherita della guerra: potrei attaccare l’Iran, ma anche no. L’Iran mi sta supplicando di tornare a trattare, ma ormai ha una sola possibilità: la resa incondizionata.

    I biografi del 45° e 47° presidente degli Stati Uniti avranno un compito titanico, ma certamente dedicheranno anni di studi e fiumi di parole a questi giorni di giugno, in cui il leader più anomalo della storia americana sembra sul punto di farsi trascinare da Israele in un conflitto che è l’opposto di quanto ha enunciato per anni: mai più guerre per gli altri, mai più cambi di regime che portano solo caos, America First e gli altri si arrangino, alleati compresi.

    Invece Benjamin Netanyahu sembra sul punto di completare il suo apparente capolavoro strategico, perché senza i bombardieri di Trump, il premier israeliano la guerra non la può vincere, se vittoria è, come minimo, l’azzeramento del programma nucleare iraniano.

    Quindi Trump darà l’ordine di attaccare? In queste ore drammaticamente incerte, il parere del miglior geopolitologo del mondo ha un peso. E a Ian Bremmer bastano poche parole per spiegare cosa succederà:

    «Donald Trump potrebbe essere sul punto di oltrepassare una linea che aveva tracciato meno di una settimana fa. Salvo una capitolazione iraniana sull'arricchimento nucleare che nessuno prevede, è probabile che il presidente ordini ai bombardieri statunitensi di colpire da un momento all'altro l'impianto sotterraneo più resistente dell'Iran a Fordow, unendosi così alla guerra di Israele contro la Repubblica islamica. La mossa non rovescerà il regime iraniano. Tuttavia, coinvolgerà Washington in un conflitto che Trump sperava - e aveva promesso - di guardare da lontano».

    L’ultimatum americano, la risposta iraniana, la soddisfazione israeliana: punto per punto.
    • Il dilemma del presidente «Potrei bombardare l’Iran, potrei non bombardarlo, nessuno sa quale mossa deciderò». Poi, rivolto agli ayatollah: «Perché non avete negoziato con me prima di tutta questa morte e distruzione?». E ancora: «Il regime di Teheran può cadere. Sull’attacco non ho ancora deciso». A Netanyahu: «Bravo, andate avanti così». Ma cosa c’è dietro le continue sortite trumpiane?
    • Un cambio di rotta improvviso Subito dopo l’inizio dell’attacco israeliano, il 13 giugno, Trump ha detto che gli Usa sarebbero intervenuti solo se l'Iran avesse colpito i loro interessi, attaccando le basi americane o bloccando lo Stretto di Hormuz, strozzatura strategica in cui passa un quarto del petrolio mondiale. Poi ha ribadito il suo ruolo di «pacificatore» esortando gli iraniani a tornare a negoziare come nei due mesi precedenti, quando la richiesta Usa al regime di Teheran era stata la rinuncia totale all’arricchimento dell’uranio. Ma la posizione di Trump è cambiata all’improvviso. Domenica la svolta: «È possibile che veniamo coinvolti». Lunedì, l’avvertimento in puro stile trumpiano agli abitanti di Teheran, 10 milioni di persone: «Evacuare immediatamente». Martedì, dopo che si era diffusa la voce che aveva impedito l’uccisione della Guida Suprema iraniana Ali Khamenei, lo ha minacciato personalmente: «Sappiamo dove si nasconde, ma almeno per il momento non vogliamo eliminarlo (ucciderlo!)». Infine, la richiesta della «resa incondizionata».
    • Ma cosa ha fatto cambiare idea a Trump? Con ogni probabilità, il crollo impensabile delle difese iraniane, liquefatte in pochi giorni. Gli israeliani hanno distrutto gran parte delle basi lanciamissili, delle fabbriche di droni e degli impianti nucleari di superficie, oltre a decimare i vertici militari iraniani. Lunedì hanno annunciato che controllano dei cieli iraniani, ovvero che possono bombardare a piacimento Teheran senza rischiare di vedersi abbattere i loro aerei. L'Iran ha risposto con un fitto lancio di missili, di cui però solo il 5% ha superato lo scudo israeliano, provocando 24 vittime, contro le centinaia subite. I lanci sono sempre meno intensi man mano che le scorte si riducono. Ogni giorno che passa, la situazione si fa più favorevole agli israeliani.
    • E poi c’è la storia È questa la grande tentazione di Trump: essere ricordato come l’uomo che ha definitivamente stroncato la minaccia nucleare iraniana. Perché questa è l’unica cosa che Netanyahu non può fare da solo, non avendo aerei e bombe capaci di distruggere la centrale di Fordow, costruita dentro una montagna. L’idea di riuscire dove non sono riusciti né Bush, né Obama, né Biden solletica l’ego di Trump. Fino a indurlo forse a violare i suoi stessi comandamenti isolazionisti.
    • La divisione nel mondo Maga Ovvero Make America Great Again, il movimento trumpiano finora compatto ma con visioni diverse in politica estera: nel Partito repubblicano riaffiora la dottrina neocon, quella che portò al disastro della guerra in Iraq, ultra-filo israeliana e favorevole ai regime change nonostante i fallimenti di questi anni (Iraq, Afghanistan, Libia). Dall’altra i Maga puri e duri come Steve Bannon e l’anchorman Tucker Carlson, contrari a ogni guerra e tiepidi se non diffidenti verso Israele. In mezzo il vicepresidente JD Vance, isolazionista convinto ma ora, scrive Viviana Mazza, pronto a fare il pontiere: «Lo fa anche perché da questo dipendono le sue ambizioni presidenziali dopo Trump: deve tenere insieme una coalizione disparata - miliardari, oligarchi della tecnologia, operai, populisti nazionalisti, ex democratici - unita per ora dal carisma di Trump, ma che rischia di spaccarsi».
    • E l’Iran come risponde? L’ayatollah Khamenei lancia proclami di resistenza a oltranza: «Non ci arrenderemo mai, il regime sionista deve essere punito, il soccorso americano è un segno della debolezza. Se gli americani intervengono, le conseguenze saranno irreparabili». Ma tutti gli scenari vedono ormai come certa l’uscita di scena della Guida Suprema. Al punto che, scrive Greta Privitera, da giorni gira la notizia che abbia trasferito gran parte dei poteri all’Irgc, cioè i famigerati pasdaran o Guardiani della Rivoluzione. Prossimi ad assumere il controllo secondo due ipotesi: «La prima li mantiene al potere: l’ayatollah viene costretto a fare un passo indietro, oppure viene eliminato, e un generale Irgc prende la guida del Paese, magari facendo un accordo con gli Stati Uniti in cui assicura la fine del programma nucleare e missilistico. Un risultato che potrebbe accontentare Netanyahu e l’amico Donald che lo farebbe passare come una "mission accomplished"». La seconda ipotesi è il vero regime change: l’eliminazione della Repubblica islamica.
    • Ma quanto è complicato il regime change? Molto, spiega il politologo iraniano Saeid Golkar. Perché cambio di regime vuol dire «eliminare tutto quello che è regime». E quindi «rimuovere Khamenei e gli alti ranghi dei pasdaran: per ora ne hanno fatti fuori 25». In tutto i Guardiani sono 180 mila: duemila quelli che contano, 200 quelli che comandano. «I duemila devono essere estirpati, gli altri si possono convincere a entrare nell’esercito regolare. Un’operazione che non si può fare con i missili dal cielo, ma che necessiterebbe di commando sul campo. Per ora non abbiamo nessun segnale che porti a pensare a qualcosa del genere, ma vista la velocità con cui cambiano gli assetti, tutto è possibile».
    • Intanto Israele Intanto Israele celebra l’apparente trionfo del suo leader, che ancora una volta si è rivelato un mago della sopravvivenza. Fino a una settimana Netanyahu era nell’angolo e Israele uno stato-paria, sempre più isolato e osteggiato. Francesi e sauditi stavano per organizzare una conferenza internazioanle a sostegno dello Stato palestinese. Ora la spettacolare offensiva sull’Iran ha oscurato la carneficina quotidiana a Gaza, dove a botte di decine al giorno si va verso i 60 mila morti.
    • Re Bibi sarà un Ciro il grande al contrario? Ciro il grande era il re persiano che nel 538 avanti Cristo liberò gli ebrei dalla cattività babilonese. Netanyahu si propone oggi come il liberatore dei persiani. Ma le bombe israeliane impongono agli iraniani la priorità della sopravvivenza su quella della fine di un regime spietato e odioso. Daniele Santoro, analista di Limes, è pessimista: «Se prima del 13 giugno esisteva un’esigua possibilità che in Iran venisse instaurato un regime progressista, tendenzialmente filo-occidentale e simpatetico, o comunque non ostile, a Israele, tale eventualità è stata seppellita sotto le macerie dei palazzi di Teheran abbattuti dall’Aeronautica israeliana. È infatti biologicamente impossibile che i giovani persiani accettino l’umiliazione subita dalla loro trimillenaria tradizione imperiale fino a legittimarla. Dopo il 13 giugno il cambio di regime è più probabile che in passato. Ma il nuovo regime non sarebbe composto da giovani desiderosi di fare la pace con Israele per comprarsi l’ultimo modello di iPhone, bensì da un’oligarchia militare legittimata unicamente dalla guerra con lo Stato ebraico. Che diventerebbe permanente. È esattamente ciò che vuole Netanyahu».
    • Intanto gli europei Intanto gli europei pattinano per ora ognuno a modo suo. Prudente come sempre l’Italia meloniana: «Tutti vogliamo la pace e la stabilità ma la principale fonte di instabilità nella regione è l’Iran. E non può diventare una potenza nucleare», dice la premier. Non sorprende che Meloni mostri più vicinanza al cancelliere tedesco Friedrich Merz e al suo «Israele fa il lavoro sporco per tutti noi» che al presidente francese Emmanuel Macron, per niente scoraggiato dai duri rimbrotti di Trump («Si sbaglia sempre»). Macron, che pure ha assicurato che la Francia difenderà Israele se necessario, ora si dice «preoccupato per l’escalation in corso», denuncia «il numero crescente di vittime civili» e annuncia «un’iniziativa nei prossimi giorni, con i più stretti partner europei, per proporre una soluzione negoziata esigente in grado di porre fine al conflitto». Come sempre, insomma, se l’Europa batte un colpo, il colpo parte da Parigi
    • Ma ricapitolando: Trump attacca o no? L’analista della Cnn Fareed Zakaria, intervistato da Paolo Valentino, ha qualche dubbio:«A me sembra che l’atteggiamento di Trump in questa situazione sia di tenersi ogni opzione aperta. Ha aspettato di vedere come sarebbe andata l’azione israeliana. Non l’ha ostacolata e quando ha visto che ha avuto successo anche oltre le aspettative, vuole metterci il cappello sopra e prendersi un po’ se non tutto il merito. Ma ancora non è del tutto chiaro se autorizzerà o meno la partecipazione americana con l’impiego dei bombardieri B2».
    • Molto più convinto, e anche convincente, Ian Bremmer: «L’evidenza suggerisce che Trump sta per premere il grilletto. Quando lo farà, i titoli dei giornali saluteranno un trionfo americano-israeliano. Il quadro reale sarà più eterogeneo: il programma nucleare iraniano frantumato ma non definitivamente distrutto, il suo regime indebolito ma non morto; gli Stati Uniti più a fondo in un conflitto che avevano giurato di evitare; e Israele che si confronta con un nemico mortale la cui volontà di acquisire armi nucleari non potrà che intensificarsi. Il Medio Oriente avrà 16 cascate di centrifughe in meno, ma non sarà più vicino alla pace».
    CorSera

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