Ora è ufficiale: Frederic Massara è il nuovo direttore sportivo della Roma, dopo l'addio di Florent Ghisolfi, e ha firmato un contratto triennale.
Attenzione: Calcio Inside! Parte III
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Originariamente Scritto da germanomosconi Visualizza MessaggioMa solo a me pare assurda la scelta di Modric?
Ha 40 anni quasi per dioI SUOI goals:
-Serie A: 189
-Serie B: 6
-Super League: 5
-Coppa Italia: 13
-Chinese FA Cup: 1
-Coppa UEFA: 5
-Champions League: 13
-Nazionale Under 21: 19
-Nazionale: 19
TOTALE: 270
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Originariamente Scritto da fede79 Visualizza MessaggioOra è ufficiale: Frederic Massara è il nuovo direttore sportivo della Roma, dopo l'addio di Florent Ghisolfi, e ha firmato un contratto triennale....ma di noi
sopra una sola teca di cristallo
popoli studiosi scriveranno
forse, tra mille inverni
«nessun vincolo univa questi morti
nella necropoli deserta»
C. Campo - Moriremo Lontani
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Originariamente Scritto da robybaggio10 Visualizza MessaggioInvece è ottimo. Tanto deve fare principalmente il baby sitter. E cmq in serie A, una partita a settimana, 60 minuti, può farli tranquillamente!
Porta della qualità, che poi è quella che piace ad Allegri, nel sua mantra che "il pallone lo si dà a quello bravo e poi lui saprà che farci"...ma di noi
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Originariamente Scritto da Steel77 Visualizza MessaggioE' una foto surreale
Si sa poi che Trump è imprevedibile, e difatti ad un certo punto chiede ai giocatori se nel club vi giochino dei trans (i trans nello sport è una delle ideologie contro cui conduce le sue battaglie)...e quelli restano zitti e spiazzati dalla domanda...e allora interviene Comolli dicendo che la Juve "ha una ottima squadra femminile"...e Trump si lancia in una filippica contro i trans nello sport...ma di noi
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Originariamente Scritto da Sean Visualizza Messaggio
Il momento non è stato dei migliori...nel senso che è chiaro che la visita è stata decisa da settimane (come accade sempre per occasioni simili) ma è capitata proprio nel mezzo della crisi con l'Iran, per cui ad un certo punto i giornalisti hanno completamente bypassato l'argomento calcio e mondiale per club e hanno iniziato a fare una sfilza di domande a Trump sull'Iran, con gli ospiti chiaramente in imbarazzo
Si sa poi che Trump è imprevedibile, e difatti ad un certo punto chiede ai giocatori se nel club giocano dei trans (i trans nello sport è una delle mode contro cui conduce le sue battaglie)...e quelli restano zitti e spiazzati dalla domanda...e allora interviene Comolli dicendo che la Juve "ha una ottima squadra femminile"...e Trump si lancia in una filippica contro i trans nello sport
questi dietro spaesati per un incontro formale sport/politica mentre quello parlava di guerra e trans, fantastico.
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Originariamente Scritto da Steel77 Visualizza MessaggioSe qualche missile dovesse accidentalmente finire sulla pinetina...
Gli avranno detto che l'Inter è zeppa de tranci.
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Gattuso si presenta: «Andremo al Mondiale»
ROMA Emozionato, sì. Ma anche lucido, concentrato, energico. «Sul pezzo» come usa dire lui. Il primo giorno da ct azzurro di Rino Gattuso è già un manifesto del progetto, anzi della missione. In perfetto stile Ringhio. «La maglia della Nazionale pesa, ma la parola paura non deve esistere - il primo slogan dell’ex mediano del Milan, 47 anni, reduce da un’esperienza con l’Hajduk Spalato in Croazia -. Abbiamo la squadra per andare al Mondiale». L’operazione non è semplice. La sconfitta in Norvegia ha complicato maledettamente le cose, serve innanzitutto vincere le sei restanti partite del girone di qualificazione, per ottenere almeno il secondo posto che vale il playoff di marzo. Strada in salita, ma occorre provarci. Non si può restare fuori dal Mondiale per la terza volta di fila. Sarebbe un disastro. Meglio non pensarci.
Accanto al neo commissario tecnico, nell’accaldata sala conferenze del Parco dei Principi Grand Hotel di Roma, ci sono il presidente federale Gabriele Gravina e il capodelegazione azzurro Gigi Buffon, che ha spinto fortemente per la nomina dell’ex compagno col quale ha vinto il Mondiale 2006. «Questo era un momento giusto affinché Rino potesse diventare il ct. Poi sarà il tempo a dire se è stata una scelta giusta o meno. Pronti a fare un passo indietro, in questo caso» spiega l’ex portiere.
La verità è che Rino non era la prima scelta della Figc, dopo l’esonero di Luciano Spalletti. Il dietrofront di Claudio Ranieri ha spalancato però le porte a Gattuso, che sa di giocarsi una grande opportunità anche a livello personale. Ha firmato un contratto annuale da meno di un milione di euro netti. Riuscisse a portarci ai Mondiali, verrà confermato. «Rino ha risposto senza esitazioni, come faceva da giocatore - puntualizza Gravina, che ha poi presentato il progetto coordinato dall’ex ct Prandelli per lo sviluppo tecnico dei giovani -. Non c’è solo entusiasmo, ma anche professionalità e spirito di sacrificio. Ha anteposto il noi all’io. Ci ha detto: Nessuno vince da solo. Al Mondiale infatti si va tutti insieme. Non è solo una questione di cuore. Gattuso sa cosa vuol dire indossare la maglia azzurra».
Questo senz’altro. Ora però serve vincere. Servono i risultati. Anche per convincere gli scettici. Ignazio La Russa, presidente del Senato, aveva espresso dubbi sulla sua nomina. Ecco la risposta: «Con La Russa non voglio fare alcuna polemica, spero solo di fargli cambiare idea». Lo spirito del neo ct è quello giusto, come dimostrano alcune frasi-manifesto della sua prima conferenza: «Ho già parlato con 35 giocatori (non Acerbi, ndi) ed entrerò nella loro testa»; «Con me in allenamento si pedala»; «Non sono solo Ringhio, le mie squadre giocano bene»; «Le prime parole che dirò alla squadra? Che dobbiamo creare una famiglia, dirci le cose in faccia. Con Lippi ci siamo sentiti a telefono, sì. Quello che era riuscito a creare lui in quello spogliatoio è l'obiettivo primario»; «Non conta il modulo, serve che i giocatori siano nel posto giusto»; «Rifiutare la Nazionale? Se vogliamo essere credibili, non possiamo creare scuse: con me viene in Nazionale anche chi sta male». Primo snodo il 5 settembre a Bergamo contro l’Estonia. Conta solo vincere.
CorSera...ma di noi
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Antonio Conte: «Con il coltello nel calzino, in campo e nella vita. Non veder crescere mia figlia è stata una privazione»
Intervista ad Antonio Conte, dopo la vittoria dello scudetto con il Napoli. Ha un'unica ricetta: «Sono cresciuto in strada a Lecce e ho avuto un'educazione molto dura, i miei genitori mi hanno insegnato che se vuoi chiedere tu prima devi dare»
Fatica, fatica, e ancora fatica. Il New York Times ha persino contato quante volte ha pronunciato la parola «lavoro», ben 32 in meno di un’ora di conferenza stampa, quando arriva al Chelsea. Lo chiamano il martello, l’integralista, il sergente di ferro. Eppure, quando racconta di sé, Antonio Conte, con la figlia Vittoria che lo osserva poco distante, sembra un’altra cosa. Oltre la durezza c’è la sensibilità dell’uomo. Rigoroso, innanzitutto con sé stesso, («Sono cresciuto in strada a Lecce, e lì devi imparare a cavartela, ad affrontare le situazioni. I miei genitori mi hanno insegnato che se vuoi chiedere, prima devi dare»), lo sguardo, le parole rivelano l’essenza autentica di uno sportivo a cui il calcio ha dato tutto ma che non ha dimenticato il senso totale della vita. Piove a dirotto alla Pinetina, lui allena l’Inter. Non ha alcuna intenzione di fermare quella seduta però a un certo punto decide di mettersi a correre a fianco dei suoi ragazzi. «Perché nel nostro mestiere, ma non solo, conta l’esempio. Se chiedi il 100 per cento, devi essere disposto a dare il 110%. Solo allora diventi credibile».
Questo è il suo metodo, fatto di successi e di sconfitte, di gioie e di amarezze, di lavoro. Lo racconta nel libro Dare tutto, chiedere tutto che ha scritto con Mauro Berruto, con la collaborazione di Giulia Mancini (Mondadori): «Difficilmente quando una partita è finita e siamo in conferenza c’è il tempo di mostrare il nostro vero volto, la narrazione diventa esclusivamente sulla partita».
Perché ha deciso di mettersi a scrivere un libro su di sé, sull’allenatore che è diventato quel ragazzo di Lecce che a 21 anni si è trovato a giocare alla Juve con campioni, da Baggio a…Schillaci, ai quali dava del “voi”?
«Non volevo fosse una nuova autobiografia, dilungandomi sempre sulle cose sportive, quella partita piuttosto che l’altra, la vittoria o la sconfitta. Ho pensato che la gente sapesse già tutto. Ho voluto raccontare invece della mia essenza, del mio metodo di gestione di un gruppo, di come sono realmente. Mi sono preso un anno sabbatico dopo il Tottenham, c’erano spazio e tempo per scrivere. Con parole mie e aiutato da Marco Berruto, un bravissimo compagno in questo viaggio. Il libro era pronto a marzo ma c’era in gioco lo scudetto e abbiamo preferito aspettare».
Lei è davvero un sergente di ferro?
«Ci sono momenti in cui devi essere più rigido, più duro, perché quello necessita la situazione, poi ci sono anche quelli in cui diventi un fratello maggiore, un padre. Per il ruolo di capo, di un leader, sarebbe fin troppo facile imporre la propria idea, dare ordini e basta. Il problema è riuscire a trovare il modo affinché capiscano l’importanza e ti seguano. Le cose devi farle attraverso l’esempio. Si accelera e si decelera, il punto di equilibrio è la chiave di tutto. Vale per il calciatore, il terapista, il magazziniere, il giardiniere. In un club, dal primo all’ultimo, tutti devono far parte di un meccanismo che lavora per ricercare il miglioramento continuo. L’esempio del fare è alla base di tutto. È inevitabile che quando le cose non vanno nella giusta direzione mi arrabbio e anche tanto».
Parla di «incazzature artificiali», a cosa si riferisce?
«Alle uniche volte in cui indosso una maschera. Mi è capitato alla Juventus: stavamo vincendo 2-0, ma mi accorgo che qualcosa non va. Allora durante l’intervallo entro nello spogliatoio e lancio una bottiglia di plastica contro la lavagna e inizio a urlare. Molti mi hanno preso per pazzo ma quel risultato sarebbe potuto cambiare se non avessimo continuato ad avere la stessa fame e concentrazione. La bravura sta nel percepire se ci sono dei rischi di questo genere e quindi intervenire».
Complimenti o incazzature, lei studia cosa dire oppure va sempre di pancia?
«È impossibile non essere me stesso, non ho filtri. Fare cose studiate prima in maniera artificiosa non mi appartiene. Non ho mai scritto o preparato un discorso da tenere ai ragazzi il giorno prima. Ho dei campioni davanti, capirebbero che non arriva dal cuore».
Ha citato la Juventus, la sua storia da calciatore e da allenatore. Ma davvero non ha avuto contatti dopo lo scudetto col Napoli?
«Non ho avuto contatti con nessuno perché a chiunque abbia provato a cercarmi con terze persone ho sempre risposto che avrei parlato con il club a fine stagione come si fa sempre. E solo se l’incontro non avesse soddisfatto le parti avrei aperto a un’altra situazione, avendo comunque un contratto con il Napoli per altri due anni».
(La figlia Vittoria lo ascolta e, forse, parla un po’ a lei e un po’ a noi)
«Ho avuto un’educazione molto dura, noi siamo quello che riceviamo dalla nostra famiglia. In questo tempo vengono sempre di più a mancare le famiglie. Educazione, spirito di sacrificio, valori che si stanno perdendo. Vittoria sa chi siamo, come ci comportiamo, ha i nostri stessi principi. Siamo una famiglia senza dubbio agiata, il lavoro ci ha permesso una condizione da benestanti ma conosciamo il valore dei soldi. Le cose si ottengono con la fatica, l’impegno. Il sacrificio, le rinunce».
La più grande rinuncia?
«Il lavoro mi porta spesso lontano dalla famiglia. Non aver visto tutti i momenti di crescita di mia figlia è stata una grande privazione. Vederla di colpo cresciuta ti rende amaramente consapevole che hai perso qualche passaggio. Per ogni cosa c’è un prezzo da pagare. Ecco, ho scritto questo libro anche per dare ancora più dignità al senso del lavoro. La fatica è una medicina pure contro lo stress mentale».
A proposito di stress, come andò con quel retropassaggio sbagliato a Montecarlo?
«Andò che alla prima partita da titolare con la Juve mi ritrovai sulla prima pagina di un giornale nazionale con il titolo Nel Principato sbaglia il Conte. Era la mia prima vera partita e avevo commesso un gravissimo errore. Iniziai a dubitare sulla mia capacità di poter giocare a questo livello. Pensai anche “ma chi me lo ha fatto fare”. A Lecce ero con i miei amici, la mia famiglia, andavo al mare fino a novembre. A Torino ero da solo, avevo 21 anni. Ero con i miei idoli, Schillaci, Tacconi, Baggio, ma all’inizio mi sentivo fuori posto. Se qualcuno mi avesse detto allora quello che avrei vinto in 13 anni avrei pensato: “Sta fuori di testa”. Invece proprio quel retropassaggio così mortificante mi spinse a reagire. Trapattoni, uno tra i più bravi allenatori che ho avuto, mi vide giù e disse: “Non stai mica pensando ancora a ieri”. Qualcosa scattò in me. Non volevo tornare a Lecce da sconfitto. Ecco, io penso che l’allenatore, così come fece con me Trapattoni, debba saper arrivare al cuore e alla testa dei calciatori. Le gambe forse sono l’ultima cosa».
Lo pensa davvero?
«Durante l’allenamento devi ripetere, ripetere e ancora ripetere i gesti fino a farli apparire semplici a chi li guarda. Solo tu sai quanta fatica ci è voluta. L’allenatore non deve essere duro, ma giusto. Meglio una brutta verità che una bella bugia. Mai illudere un calciatore, semplice dire: “La prossima partita la giochi tu” anche se sai che non è vero. Dire la verità significa rispetto».
Tutti i giocatori che ha allenato le riconoscono un grande carisma, un modo unico di entrare nella testa, ma non ce n’è uno che non dica: sì ma i suoi allenamenti sono durissimi. Quando qualcuno si lamenta cosa fa?
«Una volta il capitano del Chelsea venne a chiedere di rallentare il ritmo, di fare meno sedute video. Io acconsentii soprattutto rispettando la loro cultura, il loro modo differente di vivere il calcio. Quando sei in un Paese diverso dal tuo devi essere attento a non stravolgere troppo. Ebbene, perdemmo due partite di fila e ho rischiato di essere esonerato. Da allora penso che se devo “morire” in qualche scelta e situazione da affrontare, lo devo fare a modo mio e non per mano di altri. Questo è il metodo, il trust in process come dicono gli inglesi. Tenere fermo il punto delle scelte. La ricerca del consenso a tutti i costi è un’autocondanna. E se penso alla durezza degli allenamenti, sorrido. Zidane e Del Piero si allenavano in modo molto più duro. Oggi si fa un terzo di quello che facevamo noi. Il lavoro va naturalmente legato ai risultati, mi è capitato di allenare squadre dove dopo un po’ i calciatori stessi cercavano situazioni di fatica. Questo vuol dire per me aver ottenuto il risultato».
A Napoli è successo?
«I ragazzi sono stati sempre disponibili, mi hanno seguito fin dal primo giorno, e alla fine sono riusciti a mentalizzare il concetto di fatica, di sacrificio. Certo, a questa squadra all’inizio mancava quello che io chiamo il coltello nel calzino. Serve cattiveria sportiva, si va in guerra senza scrupoli. Poi lo hanno trovato, altrimenti non avremmo vinto il campionato. Quando alla Juve arrivò Carlos Tevez sapevamo tutti che era un campione straordinario, ma arrivò da noi con una fama di ragazzo non proprio semplice da gestire. Ebbe un inizio un po’ complicato di adattamento, ma poi a un certo punto diventò il primo in tutto nel dare l’esempio. Con ciascuno bisogna trovare la chiave di accesso. Mi costa a volte anche incazzature forti ma va bene così. Guardo all’aspetto umano e all’obiettivo».
Si è mai pentito di aver esagerato con qualcuno, di essere stato eccessivamente duro?
«Il confronto duro se lo hai col singolo non è mai semplice. Non ho mai goduto di un rimprovero forte, se l’ho fatto è perché lo ritenevo necessario, rammaricandomi del fatto di non esser riuscito ad arrivare in un altro modo. Ci sono però delle situazioni in cui devono percepire che sono molto arrabbiato. L’ultima in questa stagione è successa con i ragazzi dopo la sconfitta a Como. Eravamo 1-1 all’intervallo, hanno vinto loro nel secondo tempo perché hanno avuto più fame. Beh, lì sono stato durissimo. Si può perdere ma non perché gli altri hanno più cattiveria, più ambizione».
Qual è stata la partita in cui ha avuto la sensazione che poteva vincere lo scudetto?
«Quella con l’Inter, recuperare lo svantaggio, rischiare di vincere. Dissi pubblicamente per la prima volta: “Se vogliamo, possiamo”. Era un messaggio per i miei ragazzi. Ci credevo, dovevano farlo anche loro. Poi nel calcio c’è sempre l’imponderabile. Il pareggio col Genoa ha rischiato seriamente di compromettere lo scudetto: il difensore centrale intercetta un passaggio filtrante nella sua metà campo, passa il pallone e inizia a girovagare nella nostra area, finisce al terzino sinistro che riesce a crossare nonostante io urli a Politano di impedire il cross, e il difensore Vásquez fa gol nonostante fosse in mezzo a tre nostri giocatori».
Prima ha detto che le gambe sono l’ultima cosa…
«Il calcio è gesti e situazioni memorizzate. Le prepari e le martelli migliaia di volte. Voglio che il mio giocatore giochi la partita prima ancora di giocarla veramente, riconosca in anticipo le situazioni. Perché ci sono cose inallenabili, quelle che accadono in campo. Ma se fai e rifai mille volte un gesto, sarai pronto. Questo metodo mi auguro possa essere di ispirazione in altri ambiti lavorativi, anche per implementare la propria leadership».
Che di questi tempi è merce scarsa.
«Essere esemplari, valorizzare le competenze specifiche con la volontà di spostare avanti i limiti, soprattutto quelli considerati insuperabili. Ma non esistono scorciatoie».
L’allenatore oggi è un manager. Onori e oneri.
«L’allenatore è il ruolo peggiore, si prende carico dei problemi di tutti. Gli viene consegnato un patrimonio dalla società: sta alla sua capacità farlo crescere, depauperarlo o lasciarlo così com’è. Non è semplice, non consiglierei alle persone a cui voglio bene di fare questo mestiere, la pressione se non sei forte ti consuma».
È un uomo solo?
«Odio stare solo ma so che le decisioni si prendono così. Lo staff però è importante, mi piace avere collaboratori che non siano compiacenti. Il confronto dev’essere leale, così può essere costruttivo. Ascolto tutti, poi tocca a me decidere».
Come la decisione di restare a Napoli. O attribuisce a sua moglie Betta qualche merito?
«La famiglia è un punto di riferimento ma certe scelte le faccio io. Mia moglie, mia figlia stanno molto bene a Napoli ed è un dato di fatto. Ma poi sono io che devo allenare tutti i giorni una squadra, loro non c’entrano nulla».
A proposito com’è andata con De Laurentiis?
«Nel nostro incontro ci siamo chiariti, parlare è stato fondamentale. Lui ha capito gli errori o comunque le situazioni che devono essere migliorate. Ho un contratto e il chiarimento è stato il punto chiave. Il resto sono state voci che hanno fatto male, non hanno tenuto conto di come sono fatto io».
Lei ha scritto: «Chi si arrende in allenamento, si arrende in partita. Non odiare l’avversario ma la sconfitta. Ascoltare le persone ma non all’infinito. Ripetere, ripetere e ancora ripetere. Ciò che conta sono quelli che restano quando è difficile restare. L’allenamento comincia da come ti allacci le scarpette. In successione: esplora, studia, prova, sbaglia, correggi e naviga. Scorci di parole, utili per allenare e vincere cinque scudetti, centinaia di partite. Portare il Napoli allo scudetto numero quattro. Gestire campioni. Ma anche per molto, molto altro». Conte, le piace il suo libro?
«Sì, mi rispecchia completamente. Un libro serio, autentico. Con parole mie senza citazioni. C’è il mio vissuto».
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Non trovo molto felice l'espressione "con il coltello nel calzino" nell'intervista di Conte, che sa molto di gangster alla Scorsese...se si vuol intendere lo spirito pugnace e lo slancio aggressivo e competitivo nei confronti della vita, e dunque dello sport, la metafora che si usa e che rimanda a quel significato è semmai "con il coltello tra i denti", che non si presta ad equivoci, anche se certamente Conte voleva intendere questo e non che girasse col coltello nel calzino, cioè addosso, tipo i maranza odierni.
Per il resto che gli si può dire? In 6 campionati da allenatore in A, 5 scudetti ed un secondo posto: ha vinto al primo colpo pure al Napoli...quindi il numero uno. Dietro ci metto Allegri, che avrebbe dovuto essere il CT dell'Italia in quanto ha l'esperienza, l'età, la capacità, il carattere per rivestire quel ruolo...se solo Gravina si fosse mosso per tempo, cioè salutando Spalletti dopo gli Europei e fiondandosi sulla persona più adatta per il ruolo non solo di CT ma anche come commissiario unico per un discorso di rifondazione complessiva del calcio.
Gattuso, come sostiene Roby, forse riuscirà pure a dare una scossa in questa fase per cercare di agguantare la qualificazione ai mondiali, ma resta sempre un allenatore di terza fascia e che non ti apre la minima prospettiva - nel senso che se andiamo ai mondiali con Gattuso è per fare atto di presenza.
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Josè Mourinho sarebbe potuto diventare il nuovo ct della Nazionale Italiana. Come riporta l'edizione online del quotidiano, infatti, Adidas, sponsor sia dell'Italia che dello Special One, era disposta a contribuire all’ingaggio, ma il capo delegazione azzurro, Gianluigi Buffon, si è opposto a questa soluzione. Ostacolo rappresentato anche dal Fenerbahçe, che chiedeva una penale per liberarlo.
(repubblica.it)
sigpic
Free at last, they took your life
They could not take your PRIDE
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Mourinho non sarebbe stato adatto, troppo nevrastenico. A questo punto, almeno Gattuso è italiano, in nazionale ci ha giocato, per lui quella panchina è preziosa, ci tiene...quindi che darà tutto se stesso questo è indubbio...resta però che trattasi di Gattuso...ma se dobbiamo affondare, preferisco farlo con un allenatore italiano sulla panchina dell'Italia....ma di noi
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Originariamente Scritto da Sean Visualizza Messaggio
Per il resto che gli si può dire? In 6 campionati da allenatore in A, 5 scudetti ed un secondo posto:
madonna che statisticheOriginariamente Scritto da SPANATEMELAparliamo della mezzasega pipita e del suo golllaaaaaaaaaaaaazzzoooooooooooooooooo contro la rubentusOriginariamente Scritto da GoodBoy!ma non si era detto che espressioni tipo rube lanzie riommers dovevano essere sanzionate col rosso?
grazie.
PROFEZZOREZZAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
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