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Attenzione: Calcio Inside! Parte III

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    Domenica 13 novembre 2022
    Atalanta – Inter 12.30
    Monza – Salernitana 15.00
    Roma – Torino 15.00
    Verona – Spezia 15.00
    Milan – Fiorentina 18.00
    Juventus – Lazio 20.45
    ...ma di noi
    sopra una sola teca di cristallo
    popoli studiosi scriveranno
    forse, tra mille inverni
    «nessun vincolo univa questi morti
    nella necropoli deserta»

    C. Campo - Moriremo Lontani


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      Atalanta-Inter

      (ore 12.30 su Dazn, Sky Sport, Sky Sport Uno, Sky Sport Calcio, Sky Sport 4K e in streaming su Now Tv)
      L’Atalanta vuole riscattare la sconfitta rimediata contro il Lecce (2-1, 9 novembre). Farlo con l’Inter significherebbe chiudere nel migliore dei modi il 2022: «Dispiace per Lecce, abbiamo fatto una brutta partita, abbiamo compromesso tutto con quei due minuti, ci hanno sicuramente tolto fiducia. Nella ripresa c’è stata poca lucidità e tanta frenesia. Dobbiamo pensare all’Inter, l’attenzione è tutta lì. A Lecce hanno giocato Pasalic, Malinovskyi, Sportiello, Djimsiti, Soppy, Okoli, che ha fatto gran parte del campionato molto bene, se vogliamo solo Ruggeri e Zortea, li ho buttati dentro perché mi sembrava il momento giusto. È andata male, quando si perde è giusto fare critica, devono essere accettate, non è una pazzia». Da parte sua, Inzaghi è orientato a tenere in panchina Brozovic. La cabina di regia resterebbe così a Calhanoglu, con Mkhitaryan al suo fianco.

      Roma-Torino

      (ore 15 su Dazn)
      Dopo le polemiche per quanto accaduto tra José Mourinho e Karsdorp, la Roma si prepara ad affrontare il Torino all’Olimpico. In mediana potrebbe tornare titolare Camara con accanto uno tra Cristante e Matic. A destra confermato Celik, mentre sull’out di sinistra il ballottaggio è ancora aperto tra Zalewski ed El Shaarawy. Davanti Abraham appare nettamente favorito su Belotti, l’ex del match. Così, invece, Ivan Juric: «Pellegri non ce la fa, sarà fuori, nemmeno Lukic recupererà, Sanabria ha lavorato tutta la settimana e ha fatto bene, non può fare i novanta minuti. Questa contusione ossea non permette a Pellegri certi movimenti, sente delle fitte quando frena e riparte, ha provato ma poi si è fermato ed è uscito».


      Milan-Fiorentina

      (ore 18 su Dazn)
      Il Milan vuole chiudere il 2022, anno del 19° scudetto, con una vittoria. «Cosa significa battere i viola? Vorrebbe dire dimostrare di non rinunciare o di arrendersi a una classifica che non ci piace. Dobbiamo dimostrare di avere la consapevolezza che il campionato è ancora lungo, facendo una partita al nostro livello. È un calendario talmente anomalo che mancano ancora 24 partite di campionato. Il 2022 è stato molto positivo per noi, ma non dobbiamo fermarci», ha detto Stefano Pioli. Non sarà facile per i rossoneri. La Fiorentina, infatti, arriva da tre successi di fila in campionato. La squadra di Vincenzo Italiano non ha nessuna intenzione di fermarsi proprio adesso.

      Juventus-Lazio

      (ore 20.45 su Dazn)
      È il big match della 15° giornata di campionato. Da una parte la Juventus di Massimiliano Allegri, che sembra aver trovato un certo equilibrio, tanto da salire a 28 punti, a due lunghezze da Milan e Lazio. Dall’altra i biancocelesti di Maurizio Sarri, che hanno saputo ribattere colpo su colpo alle avversità fino a trovare la propria dimensione ideale. La brutta notizia è che non ci dovrebbe essere ancora Immobile al centro dell’attacco, ma la Lazio in queste settimane ha saputo fare di necessità virtù. Chi vincerà, riuscirà a restare aggrappato alle posizioni di vertice. E la Juventus non vuole perdere terreno adesso. Che dovrà sì andare alla ricerca del bel gioco, ma intanto i risultati stanno iniziando a vedersi.

      CorSera
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      sopra una sola teca di cristallo
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      forse, tra mille inverni
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      C. Campo - Moriremo Lontani


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        Zdenek Zeman si confessa: «Ho odiato i comunisti, tifo Juve da sempre»

        In uscita l’autobiografia di Zeman scritta con Andrea Di Caro. «Ho attaccato tutti, non soltanto i bianconeri. Il potere della finanza ha condizionato la serie A»

        di Aldo Cazzullo

        Racconta Zdenek Zeman, nell’autobiografia scritta con Andrea Di Caro, La bellezza non ha prezzo: «Ho visto tutto. Ho fatto tanti ritiri in hotel a 5 stelle e altrettanti in alberghi Miramare dove la padrona era anche la cuoca. Sono stato assunto da presidenti in doppiopetto e da poveri diavoli di periferia con cravatte improbabili. Ho allenato campioni che guadagnavano miliardi e giovani a cui dovevo prestare i soldi per la benzina...».

        Che nome è Zdenek?
        «Sidonius, in latino. Viene dalla radice zidati, che significa creare, costruire. Un nome, un destino. Ho sempre cercato di creare gioco e felicità. Bellezza, appunto».


        Lei è nato a Praga nel 1947, due anni dopo l’arrivo dell’Armata Rossa. Come ricorda la Cecoslovacchia comunista?
        «Odiavo i comunisti. Come li odiava mio padre, medico. Al piano di sopra abitava il capo del partito di Praga 14, il nostro distretto. Papà talvolta urlava dalla finestra del bagno la sua rabbia contro il regime. Ogni tanto qualcuno spariva».

        Chi spariva?
        «A un altro piano viveva un campione mondiale di hockey su ghiaccio. In una trasferta all’estero aveva pensato alla fuga; fu scoperto e arrestato. Lo rivedemmo dopo cinque anni».

        Com’era la vostra casa?
        «Vivevamo in due stanze. Papà e mamma dormivano in tinello, mia sorella Jarmila e io in cucina. Ma non ci sentivamo poveri, anzi; rispetto agli altri eravamo ricchi».


        Infanzia dura.
        «Ci costringevano a festeggiare il compleanno di Stalin e di Lenin, ma io non ho mai portato un fazzoletto rosso. In compenso avevo una mazza da hockey e quattro palloni, anche se ogni tanto gli zingari me ne rubavano uno. Facevamo il catechismo di nascosto. Eravamo una famiglia molto cattolica».

        Lei lo è ancora?
        «Non sono più praticante. Ma quando morì il mio Papa, Giovanni Paolo II, mi misi in fila a San Pietro per andare a salutarlo. Volevano farmi passare avanti; rifiutai. La notte in coda fu bellissima».


        Roma è la sua città d’adozione.
        «Vivo qui da 25 anni, ho allenato entrambe le squadre, e sia i laziali sia i romanisti mi vogliono ancora bene».

        Come trova la capitale?
        «È una splendida città antica, e una metropoli moderna piena di problemi che nessuno affronta».

        Perché?
        «Perché gli italiani rimandano sempre tutto a domani».

        Lei per quale squadra tifa?
        «Sono sempre stato juventino. Da piccolo andavo a dormire con la maglia bianconera».

        Zeman juventino? Ma se avete avuto polemiche durissime.
        «Con la Juve di Moggi, Giraudo e Bettega. Ma la Juventus non comincia e non finisce con loro. Era la squadra di mio zio Cestmir Vycpálek: il più grande talento del calcio cecoslovacco prima di Pavel Nedved, che portai in Italia. La differenza è che Nedved, lavoratore maniacale, voleva allenarsi pure il giorno di Natale; mio zio invece amava le gioie della vita. Era stato a Dachau, e il lager l’aveva segnato. Ma mi dicono fosse birichino anche prima».

        Lei arrivò in Italia per la prima volta nel 1966, in Sicilia, proprio per far visita a suo zio.
        «Pensavo di non poter vivere lontano da Praga; non avevo ancora visto il mare di Mondello. Presi l’abitudine di passare l’estate a Palermo. Anche quella del 1968, quando a Praga arrivarono i carri armati sovietici».

        E lei tornò in patria.
        «A inizio novembre. Volevo finire l’università. Il 16 gennaio del 1969 si diede fuoco Jan Palach. Il 30 giugno ripartii per l’Italia; il giorno dopo i comunisti chiusero le frontiere. Non vidi i miei genitori e mia sorella per vent’anni».

        Suo zio Cestmir divenne allenatore della Juve.
        «E vinse due scudetti consecutivi, nel 1972 e nel 1973. Ero a San Siro quando il giovane Bettega segnò il gol di tacco al Milan. Esultai. C’erano Haller, Causio, Capello. Ricordo i derby: sulla panchina del Toro sedeva Giagnoni col colbacco...».

        Il 1972 è anche l’anno del disastro aereo di Punta Raisi.
        «In cui morì mio cugino, il figlio di mio zio: Cestmir junior, detto Cestino. Un dolore terribile. Era il 5 maggio. Lo zio se n’è andato lo stesso giorno, trent’anni dopo, mentre la sua Juve vinceva uno scudetto insperato: 5 maggio 2002, il crollo dell’Inter all’Olimpico».

        In Sicilia lei trovò la donna della sua vita.
        «Vidi Chiara e capii subito di essere innamorato. Siamo insieme ancora adesso».

        E cominciò ad allenare il Bacigalupo. Presidente, Marcello Dell’Utri.
        «Andai a casa sua. Ricordo l’ascensore privato. Era già un uomo ricco».

        Capiva di calcio?
        «Come Berlusconi: capiva il suo calcio, non quello dei suoi allenatori».

        Poi lei passò alle giovanili del Palermo.
        «I campi erano in terra battuta: a ogni scivolata perdevi sangue, ora sono diventati campi nomadi. I tesserati erano due. Misi un annuncio sul giornale: cercasi calciatori. Si presentarono a decine. Presi tutti quelli che sapessero fare tre palleggi di fila».

        E cominciò ad applicare la sua filosofia.
        «Gradoni, sacchi di sabbia, corse ripetute. In un torneo al Nord incontrammo Juve, Toro e Milan, dove giocava Paolo Maldini, e le battemmo tutte. Andavamo al doppio della loro velocità. Tuttosport scrisse: questo Palermo è una piccola Olanda».

        Nel 1978 frequentò il supercorso di Coverciano, con Arrigo Sacchi.
        «C’erano anche Agroppi e Mondonico. Uno psicologo ci fece il test dell’ansia: trenta domande cui rispondere con la massima sincerità. Il più ansioso era Agroppi con il 90%, poi Mondonico con l’80. Pure Sacchi non scherzava».

        E il suo livello di ansia?
        «Zero».

        Dopo le giovanili del Palermo, il Licata.
        «Una Nazionale siciliana, tra loro parlavano tutti in dialetto. C’era pure Maurizio Schillaci, il cugino di Totò. Aveva più talento, ma gli mancava la testa: un bravo ragazzo dalle pessime frequentazioni. Quando mi rubavano l’autoradio mi rivolgevo a lui. Il giorno dopo me la riportavano».

        Lei allenò Totò Schillaci al Messina, in serie B.
        «Aveva un senso pazzesco del gol: ne fece 23, anche se quasi tutti in casa».

        Gianni Brera la definì «tetro ginnasiarca, carceriere dello Spielberg».
        «Pesavo i giocatori ogni mattina. Più si allenavano, più la partita diventava un divertimento. A fine stagione le altre squadre erano stanche; le mie correvano più di prima».


        A Foggia inventarono la parola Zemanlandia.
        «Erano appena stati promossi in B. Il primo anno arrivammo ottavi, il secondo vincemmo il campionato. Signori-Baiano-Rambaudi fecero 48 gol».

        Era il 1990. Il 9 novembre dell’anno prima era crollato il Muro.
        «Il presidente del Foggia, Casillo, mi caricò sul suo aereo privato e mi portò a Praga. Rividi mio padre, mia madre, mia sorella, e mi pareva di averli lasciati il giorno prima. Tutte le mie cose erano lì dove le avevo lasciate: i palloni, la mazza da hockey. Mi sono sentito felice».

        Casillo poi finì in carcere.
        «E io andai all’uscita ad aspettarlo. Sapevo che era innocente. L’hanno riconosciuto dopo tredici anni».

        Che tipo era?
        «Un generoso. Avevamo un terzino sinistro velocissimo, Codispoti, che al momento del cross combinava di tutto, con i piedi che aveva. Allora Casillo gli mise centomila lire nella scarpa: se non sbagliava poteva tenersele».

        Come fu l’esordio in serie A?
        «Pareggiammo 1 a 1 a San Siro con l’Inter. Dissi a Matrecano, che avevo preso dalla Turris, C2, per 25 milioni di lire: “Tu marchi Klinsmann”. Klinsmann non toccò palla. Quando tornammo a San Siro con il Milan, dissi a Matrecano: “Tu marchi Van Basten”. Van Basten fece tre gol».

        Al ritorno a Foggia ne prendeste 8.
        «Alla fine del primo tempo vincevamo 2 a 1. Ma i miei ormai erano ceduti ad altre squadre, pensavano solo a segnare. Si ritrovarono tutti nella metà campo del Milan, che li infilò in contropiede. Comunque chiudemmo noni, con il secondo miglior attacco della serie A. E Matrecano passò al Parma per sei miliardi».

        Al Nord lei non ha quasi mai allenato.
        «Al Centro-Sud si mangia calcio. Una volta Boksic mi disse: a Torino vinci lo scudetto e dopo un’ora non frega niente a nessuno; a Roma avremmo festeggiato mesi».

        Nella capitale lei arrivò nel 1994, ad allenare la Lazio.
        «Firmai nella sede della Banca di Roma, e trovai la cosa molto strana. C’era pure Geronzi, il banchiere, e mi chiese quale allenatore avrebbe dovuto prendere la Roma. Lui pensava a Trapattoni».

        Lei cosa rispose?
        «Che ero appena diventato il tecnico della Lazio, e non potevo dare consigli ai rivali».

        Ma nel 1997 ad allenare la Roma andò lei.
        «La Lazio mi aveva esonerato. Suona il telefono: “Sono il presidente Sensi”. Buttai giù: “E io sono Napoleone”. Era Sensi per davvero».

        Lei denunciò l’abuso di farmaci nel calcio. La Juve finì sotto processo.
        «Ma solo perché a Torino c’era un magistrato coraggioso, Guariniello. Io ho puntato il dito contro il sistema, non solo contro la Juve, che aveva molti seguaci. E il problema non erano solo i farmaci. Erano anche i passaporti falsi. Era anche il condizionamento degli arbitraggi. Era anche lo strapotere della finanza».

        A cosa si riferisce?
        «Al Nord c’era l’alleanza tra Juve e Milan; l’Inter ne era esclusa, e cercava di entrare nel sistema pure lei. Altre squadre, dal Parma alla Lazio al Perugia, erano in mano alla Banca di Roma: Tanzi e Cragnotti ne uscirono rovinati, come pure Gaucci. Che fece in tempo a caricare il suo Perugia a pallettoni, per far perdere lo scudetto del 2000 alla Juve, sotto il nubifragio».

        In primo grado il medico dei bianconeri, Agricola, fu condannato, ma in appello fu assolto.
        «Non perché il fatto non sussistesse, ma perché “non era previsto dalla legge come reato”. Saltò il presidente del Coni, cominciarono controlli anti-doping seri. E i risultati si videro subito».

        Cosa accadde?
        «Scoppiò lo scandalo del nandrolone. Giocatori trovati positivi inventarono scuse puerili. Couto del Parma, che era un capellone, diede la colpa a uno shampoo. Un altro, che era stempiato, a una lozione contro la caduta. Bucchi e Monaco del Perugia alla carne di cinghiale. Ci finirono dentro pure Davids e Guardiola. E io pagai un prezzo altissimo».

        Vale a dire?
        «Il campionato 1998-1999 fu un calvario di torti arbitrali, che costarono alla mia Roma almeno 21 punti. A Udine ci inventarono un rigore contro. Avevamo un attaccante, Fabio Junior, immeritatamente detto l’Uragano blu, che non segnava mai; quando finalmente fece un gol, glielo annullarono, non si è mai capito perché. Episodi assurdi. I calciatori videro che i loro sforzi erano inutili, e qualcuno mollò. La quartultima giornata perdemmo 4 a 5 con l’Inter all’Olimpico. Si disse che l’Inter avesse contattato tre dei miei in vista dell’anno successivo. Ebbi l’impressione che alcuni fossero distratti, c’erano difensori che facevano i centravanti... Così con Sensi decidemmo di fare nuovi acquisti».

        Invece Sensi la mandò via.
        «Il sistema lo convinse che con me in panchina non avrebbe mai vinto nulla».

        Arrivò Capello, e nel 2001 vinse lo scudetto.
        «Ma con spese folli, tipo i 70 miliardi per Batistuta trentunenne, che costarono a Sensi il tracollo finanziario. E Capello non partecipò alla festa al Circo Massimo, che io non mi sarei perso per niente al mondo. Invece mi ritrovai senza contratto; del resto avevo sempre voluto accordi annuali. Mi avevano cercato il Real Madrid, il Barcellona, l’Inter. E avevo detto no a tutti».

        Così si ritrovò a Napoli, poi a Lecce, di nuovo a Foggia, quindi a Pescara. Dove si imbatté in tre giovanissimi destinati a una grande carriera.
        «Immobile aveva fame. Insigne aveva talento. Verratti aveva bisogno di trovare la posizione giusta. Faceva il trequartista o la mezzala; lo impostai da regista davanti alla difesa. Dove gioca ancora adesso, nel Psg e in Nazionale».

        Chi è stato il giocatore più forte di tutti i tempi?
        «Pelé. Per come si comportava fuori dal campo. Chissà cosa avrebbe fatto Maradona, se non fosse caduto schiavo della droga e delle cattive frequentazioni».

        E il giocatore più forte che ha mai avuto?
        «Totti. Pareva avesse quattro occhi, due davanti e due dietro. Gli ho visto fare cose che sorprendevano tutti, anche me dalla panchina. Un’intelligenza calcistica prodigiosa. L’ho allenato due volte, quando aveva ventun anni e quando ne aveva trentasei, al mio ritorno alla Roma. Mi ha sempre seguito. E non abbiamo ma litigato».

        Gascoigne?
        «Non giocava quasi mai. Infortuni. E scherzetti. Avevo un fischietto antico cui ero affezionato; un giorno in allenamento non lo trovai più. Gascoigne l’aveva legato al collo di un tacchino».

        E Tommasi, che ora fa il sindaco di Verona, com’era?
        «Bravo e serio. Non mollava mai, neppure quando lo fischiava tutto lo stadio».

        Perché lo fischiava tutto lo stadio?
        «Perché sbagliava troppi passaggi. Poi però i palloni li recuperava».

        D’Alema dichiarò: «Zeman? A volte dire la verità è colpa gravissima».
        «Era presidente del Consiglio, venne a trovarci a Trigoria. Non ha le mie idee politiche; ma l’importante era che fosse romanista».

        Quali sono le sue idee politiche?
        «Sono amico di Alessandro Di Battista. Mi ha anche proposto un seggio al Senato; ma la politica non fa per me, e forse neanche per lui. Nel 2018 però ho votato Cinque Stelle».

        Sempre antisistema.
        «Qualche sistema buono ci deve pur essere. Però ne ho conosciuti pochi».

        Resta il fatto che lei non ha mai vinto nulla.
        «Ma ho regalato emozioni, lanciato talenti. Il calcio è un gioco, e io l’ho vissuto così. Ho sempre preferito vincere 5 a 4 che 1 a 0».

        San Siro va abbattuto?
        «No. Meglio semmai abbattere l’Olimpico: la partita si vede male per colpa della pista d’atletica, che si usa una sera l’anno».

        Ma potrebbe servire per l’Olimpiade.
        «L’Olimpiade è nella migliore delle ipotesi uno spreco, nella peggiore un’occasione per rubare. Come lo fu Italia ’90. Come temo saranno i Giochi invernali di Milano e Cortina».

        Alla fine del libro lei parla dei suoi due figli.
        «Il primo, Karel, fa l’allenatore da 15 anni, anche se non ha ancora trovato la squadra giusta. Il secondo, Andrea, odiava il calcio, che gli portava via il papà. Ha avuto un brutto male al colon, ma è guarito. Ha lavorato alla Lega contro i tumori, ha fatto le campagne anti-fumo. Il figlio di Zeman contro le sigarette...».

        Quanto fuma al giorno?
        «Partivo da tre pacchetti. Ho ridotto a uno e mezzo».

        Guardi che ha fumato un pacchetto e mezzo in tre ore.
        «Ero un po’ teso per l’intervista...».

        E Zeman finalmente sorride.

        CorSera
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        forse, tra mille inverni
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        C. Campo - Moriremo Lontani


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          Originariamente Scritto da marcu9 Visualizza Messaggio
          Almeno Paul Pogba potrà giocare serenamente nella sua casa di Torino.




          Inviato dal mio SM-G998B utilizzando Tapatalk
          lui però è proprio coglione a farsi vedere così in questo momento
          Originariamente Scritto da Marco pl
          i 200 kg di massimale non siano così irraggiungibili in arco di tempo ragionevole per uno mediamente dotato.
          Originariamente Scritto da master wallace
          IO? Mai masturbato.
          Originariamente Scritto da master wallace
          Io sono drogato..

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            Effettivamente

            Inviato dal mio SM-G998B utilizzando Tapatalk
            Originariamente Scritto da Sean
            Tu non capisci niente, Lukino, proietti le tue fissi su altri. Sei di una ignoranza abissale. Prima te la devi scrostare di dosso, poi potremmo forse avere un dialogo civile.

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              Un altro turno pieno di belle partite questo ultimo prima dei disgraziatissimi mondiali invernali: occhi sul Milan per vedere se terrà il passo (contro la Fiorentina) del super Napoli; Atalanta-Inter, Roma-Torino, Juve-Lazio...tutte partite non scontate.

              Poi si aprirà la grande questione sul come e se la lunga pausa cui saremo costretti influirà sul Napoli, primo candidato allo scudetto...dunque rischiando di inficiare una eventuale vittoria di portata storica.

              Se la stagione fosse continuata coma al solito avrei anche io detto Napoli...ma così tutto si mette in discussione. Vorrà dire che sarà ancora più interessante seguire il campionato da gennaio.
              Last edited by Sean; 13-11-2022, 08:49:13.
              ...ma di noi
              sopra una sola teca di cristallo
              popoli studiosi scriveranno
              forse, tra mille inverni
              «nessun vincolo univa questi morti
              nella necropoli deserta»

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                Originariamente Scritto da sylvester Visualizza Messaggio
                Saremo la prima.squadra italiana a tornare a vincere la.champions...

                E non dico che sarà quest'anno
                Ovviamente.
                Questo è sicuro.
                Ma poesse che Osihmen ha smesso de giocà, ner frattempo...

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                  Acquisterò il libro di Zeman, perchè mi piacciono gli aneddoti e le biografie...se scritte nell'età giusta per raccontare qualcosa e non a 20 anni di età come tanti fanno ora.

                  E' stato comunque un protagonista di un calcio che non c'è più, un calcio dove l'Italia era ai massimi e quindi è sempre interessante scoprire qualcosa che non si conosce...perchè comunque, piaccia o no il personaggio, una vita nel calcio ce l'ha passata.
                  ...ma di noi
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                  forse, tra mille inverni
                  «nessun vincolo univa questi morti
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                  C. Campo - Moriremo Lontani


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                    Osimehn andrà all'estero. E' roba da Premier.
                    ...ma di noi
                    sopra una sola teca di cristallo
                    popoli studiosi scriveranno
                    forse, tra mille inverni
                    «nessun vincolo univa questi morti
                    nella necropoli deserta»

                    C. Campo - Moriremo Lontani


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                      Originariamente Scritto da Sean Visualizza Messaggio
                      Zdenek Zeman si confessa: «Ho odiato i comunisti, tifo Juve da sempre»

                      In uscita l’autobiografia di Zeman scritta con Andrea Di Caro. «Ho attaccato tutti, non soltanto i bianconeri. Il potere della finanza ha condizionato la serie A»

                      di Aldo Cazzullo

                      Racconta Zdenek Zeman, nell’autobiografia scritta con Andrea Di Caro, La bellezza non ha prezzo: «Ho visto tutto. Ho fatto tanti ritiri in hotel a 5 stelle e altrettanti in alberghi Miramare dove la padrona era anche la cuoca. Sono stato assunto da presidenti in doppiopetto e da poveri diavoli di periferia con cravatte improbabili. Ho allenato campioni che guadagnavano miliardi e giovani a cui dovevo prestare i soldi per la benzina...».

                      Che nome è Zdenek?
                      «Sidonius, in latino. Viene dalla radice zidati, che significa creare, costruire. Un nome, un destino. Ho sempre cercato di creare gioco e felicità. Bellezza, appunto».


                      Lei è nato a Praga nel 1947, due anni dopo l’arrivo dell’Armata Rossa. Come ricorda la Cecoslovacchia comunista?
                      «Odiavo i comunisti. Come li odiava mio padre, medico. Al piano di sopra abitava il capo del partito di Praga 14, il nostro distretto. Papà talvolta urlava dalla finestra del bagno la sua rabbia contro il regime. Ogni tanto qualcuno spariva».

                      Chi spariva?
                      «A un altro piano viveva un campione mondiale di hockey su ghiaccio. In una trasferta all’estero aveva pensato alla fuga; fu scoperto e arrestato. Lo rivedemmo dopo cinque anni».

                      Com’era la vostra casa?
                      «Vivevamo in due stanze. Papà e mamma dormivano in tinello, mia sorella Jarmila e io in cucina. Ma non ci sentivamo poveri, anzi; rispetto agli altri eravamo ricchi».


                      Infanzia dura.
                      «Ci costringevano a festeggiare il compleanno di Stalin e di Lenin, ma io non ho mai portato un fazzoletto rosso. In compenso avevo una mazza da hockey e quattro palloni, anche se ogni tanto gli zingari me ne rubavano uno. Facevamo il catechismo di nascosto. Eravamo una famiglia molto cattolica».

                      Lei lo è ancora?
                      «Non sono più praticante. Ma quando morì il mio Papa, Giovanni Paolo II, mi misi in fila a San Pietro per andare a salutarlo. Volevano farmi passare avanti; rifiutai. La notte in coda fu bellissima».


                      Roma è la sua città d’adozione.
                      «Vivo qui da 25 anni, ho allenato entrambe le squadre, e sia i laziali sia i romanisti mi vogliono ancora bene».

                      Come trova la capitale?
                      «È una splendida città antica, e una metropoli moderna piena di problemi che nessuno affronta».

                      Perché?
                      «Perché gli italiani rimandano sempre tutto a domani».

                      Lei per quale squadra tifa?
                      «Sono sempre stato juventino. Da piccolo andavo a dormire con la maglia bianconera».

                      Zeman juventino? Ma se avete avuto polemiche durissime.
                      «Con la Juve di Moggi, Giraudo e Bettega. Ma la Juventus non comincia e non finisce con loro. Era la squadra di mio zio Cestmir Vycpálek: il più grande talento del calcio cecoslovacco prima di Pavel Nedved, che portai in Italia. La differenza è che Nedved, lavoratore maniacale, voleva allenarsi pure il giorno di Natale; mio zio invece amava le gioie della vita. Era stato a Dachau, e il lager l’aveva segnato. Ma mi dicono fosse birichino anche prima».

                      Lei arrivò in Italia per la prima volta nel 1966, in Sicilia, proprio per far visita a suo zio.
                      «Pensavo di non poter vivere lontano da Praga; non avevo ancora visto il mare di Mondello. Presi l’abitudine di passare l’estate a Palermo. Anche quella del 1968, quando a Praga arrivarono i carri armati sovietici».

                      E lei tornò in patria.
                      «A inizio novembre. Volevo finire l’università. Il 16 gennaio del 1969 si diede fuoco Jan Palach. Il 30 giugno ripartii per l’Italia; il giorno dopo i comunisti chiusero le frontiere. Non vidi i miei genitori e mia sorella per vent’anni».

                      Suo zio Cestmir divenne allenatore della Juve.
                      «E vinse due scudetti consecutivi, nel 1972 e nel 1973. Ero a San Siro quando il giovane Bettega segnò il gol di tacco al Milan. Esultai. C’erano Haller, Causio, Capello. Ricordo i derby: sulla panchina del Toro sedeva Giagnoni col colbacco...».

                      Il 1972 è anche l’anno del disastro aereo di Punta Raisi.
                      «In cui morì mio cugino, il figlio di mio zio: Cestmir junior, detto Cestino. Un dolore terribile. Era il 5 maggio. Lo zio se n’è andato lo stesso giorno, trent’anni dopo, mentre la sua Juve vinceva uno scudetto insperato: 5 maggio 2002, il crollo dell’Inter all’Olimpico».

                      In Sicilia lei trovò la donna della sua vita.
                      «Vidi Chiara e capii subito di essere innamorato. Siamo insieme ancora adesso».

                      E cominciò ad allenare il Bacigalupo. Presidente, Marcello Dell’Utri.
                      «Andai a casa sua. Ricordo l’ascensore privato. Era già un uomo ricco».

                      Capiva di calcio?
                      «Come Berlusconi: capiva il suo calcio, non quello dei suoi allenatori».

                      Poi lei passò alle giovanili del Palermo.
                      «I campi erano in terra battuta: a ogni scivolata perdevi sangue, ora sono diventati campi nomadi. I tesserati erano due. Misi un annuncio sul giornale: cercasi calciatori. Si presentarono a decine. Presi tutti quelli che sapessero fare tre palleggi di fila».

                      E cominciò ad applicare la sua filosofia.
                      «Gradoni, sacchi di sabbia, corse ripetute. In un torneo al Nord incontrammo Juve, Toro e Milan, dove giocava Paolo Maldini, e le battemmo tutte. Andavamo al doppio della loro velocità. Tuttosport scrisse: questo Palermo è una piccola Olanda».

                      Nel 1978 frequentò il supercorso di Coverciano, con Arrigo Sacchi.
                      «C’erano anche Agroppi e Mondonico. Uno psicologo ci fece il test dell’ansia: trenta domande cui rispondere con la massima sincerità. Il più ansioso era Agroppi con il 90%, poi Mondonico con l’80. Pure Sacchi non scherzava».

                      E il suo livello di ansia?
                      «Zero».

                      Dopo le giovanili del Palermo, il Licata.
                      «Una Nazionale siciliana, tra loro parlavano tutti in dialetto. C’era pure Maurizio Schillaci, il cugino di Totò. Aveva più talento, ma gli mancava la testa: un bravo ragazzo dalle pessime frequentazioni. Quando mi rubavano l’autoradio mi rivolgevo a lui. Il giorno dopo me la riportavano».

                      Lei allenò Totò Schillaci al Messina, in serie B.
                      «Aveva un senso pazzesco del gol: ne fece 23, anche se quasi tutti in casa».

                      Gianni Brera la definì «tetro ginnasiarca, carceriere dello Spielberg».
                      «Pesavo i giocatori ogni mattina. Più si allenavano, più la partita diventava un divertimento. A fine stagione le altre squadre erano stanche; le mie correvano più di prima».


                      A Foggia inventarono la parola Zemanlandia.
                      «Erano appena stati promossi in B. Il primo anno arrivammo ottavi, il secondo vincemmo il campionato. Signori-Baiano-Rambaudi fecero 48 gol».

                      Era il 1990. Il 9 novembre dell’anno prima era crollato il Muro.
                      «Il presidente del Foggia, Casillo, mi caricò sul suo aereo privato e mi portò a Praga. Rividi mio padre, mia madre, mia sorella, e mi pareva di averli lasciati il giorno prima. Tutte le mie cose erano lì dove le avevo lasciate: i palloni, la mazza da hockey. Mi sono sentito felice».

                      Casillo poi finì in carcere.
                      «E io andai all’uscita ad aspettarlo. Sapevo che era innocente. L’hanno riconosciuto dopo tredici anni».

                      Che tipo era?
                      «Un generoso. Avevamo un terzino sinistro velocissimo, Codispoti, che al momento del cross combinava di tutto, con i piedi che aveva. Allora Casillo gli mise centomila lire nella scarpa: se non sbagliava poteva tenersele».

                      Come fu l’esordio in serie A?
                      «Pareggiammo 1 a 1 a San Siro con l’Inter. Dissi a Matrecano, che avevo preso dalla Turris, C2, per 25 milioni di lire: “Tu marchi Klinsmann”. Klinsmann non toccò palla. Quando tornammo a San Siro con il Milan, dissi a Matrecano: “Tu marchi Van Basten”. Van Basten fece tre gol».

                      Al ritorno a Foggia ne prendeste 8.
                      «Alla fine del primo tempo vincevamo 2 a 1. Ma i miei ormai erano ceduti ad altre squadre, pensavano solo a segnare. Si ritrovarono tutti nella metà campo del Milan, che li infilò in contropiede. Comunque chiudemmo noni, con il secondo miglior attacco della serie A. E Matrecano passò al Parma per sei miliardi».

                      Al Nord lei non ha quasi mai allenato.
                      «Al Centro-Sud si mangia calcio. Una volta Boksic mi disse: a Torino vinci lo scudetto e dopo un’ora non frega niente a nessuno; a Roma avremmo festeggiato mesi».

                      Nella capitale lei arrivò nel 1994, ad allenare la Lazio.
                      «Firmai nella sede della Banca di Roma, e trovai la cosa molto strana. C’era pure Geronzi, il banchiere, e mi chiese quale allenatore avrebbe dovuto prendere la Roma. Lui pensava a Trapattoni».

                      Lei cosa rispose?
                      «Che ero appena diventato il tecnico della Lazio, e non potevo dare consigli ai rivali».

                      Ma nel 1997 ad allenare la Roma andò lei.
                      «La Lazio mi aveva esonerato. Suona il telefono: “Sono il presidente Sensi”. Buttai giù: “E io sono Napoleone”. Era Sensi per davvero».

                      Lei denunciò l’abuso di farmaci nel calcio. La Juve finì sotto processo.
                      «Ma solo perché a Torino c’era un magistrato coraggioso, Guariniello. Io ho puntato il dito contro il sistema, non solo contro la Juve, che aveva molti seguaci. E il problema non erano solo i farmaci. Erano anche i passaporti falsi. Era anche il condizionamento degli arbitraggi. Era anche lo strapotere della finanza».

                      A cosa si riferisce?
                      «Al Nord c’era l’alleanza tra Juve e Milan; l’Inter ne era esclusa, e cercava di entrare nel sistema pure lei. Altre squadre, dal Parma alla Lazio al Perugia, erano in mano alla Banca di Roma: Tanzi e Cragnotti ne uscirono rovinati, come pure Gaucci. Che fece in tempo a caricare il suo Perugia a pallettoni, per far perdere lo scudetto del 2000 alla Juve, sotto il nubifragio».

                      In primo grado il medico dei bianconeri, Agricola, fu condannato, ma in appello fu assolto.
                      «Non perché il fatto non sussistesse, ma perché “non era previsto dalla legge come reato”. Saltò il presidente del Coni, cominciarono controlli anti-doping seri. E i risultati si videro subito».

                      Cosa accadde?
                      «Scoppiò lo scandalo del nandrolone. Giocatori trovati positivi inventarono scuse puerili. Couto del Parma, che era un capellone, diede la colpa a uno shampoo. Un altro, che era stempiato, a una lozione contro la caduta. Bucchi e Monaco del Perugia alla carne di cinghiale. Ci finirono dentro pure Davids e Guardiola. E io pagai un prezzo altissimo».

                      Vale a dire?
                      «Il campionato 1998-1999 fu un calvario di torti arbitrali, che costarono alla mia Roma almeno 21 punti. A Udine ci inventarono un rigore contro. Avevamo un attaccante, Fabio Junior, immeritatamente detto l’Uragano blu, che non segnava mai; quando finalmente fece un gol, glielo annullarono, non si è mai capito perché. Episodi assurdi. I calciatori videro che i loro sforzi erano inutili, e qualcuno mollò. La quartultima giornata perdemmo 4 a 5 con l’Inter all’Olimpico. Si disse che l’Inter avesse contattato tre dei miei in vista dell’anno successivo. Ebbi l’impressione che alcuni fossero distratti, c’erano difensori che facevano i centravanti... Così con Sensi decidemmo di fare nuovi acquisti».

                      Invece Sensi la mandò via.
                      «Il sistema lo convinse che con me in panchina non avrebbe mai vinto nulla».

                      Arrivò Capello, e nel 2001 vinse lo scudetto.
                      «Ma con spese folli, tipo i 70 miliardi per Batistuta trentunenne, che costarono a Sensi il tracollo finanziario. E Capello non partecipò alla festa al Circo Massimo, che io non mi sarei perso per niente al mondo. Invece mi ritrovai senza contratto; del resto avevo sempre voluto accordi annuali. Mi avevano cercato il Real Madrid, il Barcellona, l’Inter. E avevo detto no a tutti».

                      Così si ritrovò a Napoli, poi a Lecce, di nuovo a Foggia, quindi a Pescara. Dove si imbatté in tre giovanissimi destinati a una grande carriera.
                      «Immobile aveva fame. Insigne aveva talento. Verratti aveva bisogno di trovare la posizione giusta. Faceva il trequartista o la mezzala; lo impostai da regista davanti alla difesa. Dove gioca ancora adesso, nel Psg e in Nazionale».

                      Chi è stato il giocatore più forte di tutti i tempi?
                      «Pelé. Per come si comportava fuori dal campo. Chissà cosa avrebbe fatto Maradona, se non fosse caduto schiavo della droga e delle cattive frequentazioni».

                      E il giocatore più forte che ha mai avuto?
                      «Totti. Pareva avesse quattro occhi, due davanti e due dietro. Gli ho visto fare cose che sorprendevano tutti, anche me dalla panchina. Un’intelligenza calcistica prodigiosa. L’ho allenato due volte, quando aveva ventun anni e quando ne aveva trentasei, al mio ritorno alla Roma. Mi ha sempre seguito. E non abbiamo ma litigato».

                      Gascoigne?
                      «Non giocava quasi mai. Infortuni. E scherzetti. Avevo un fischietto antico cui ero affezionato; un giorno in allenamento non lo trovai più. Gascoigne l’aveva legato al collo di un tacchino».

                      E Tommasi, che ora fa il sindaco di Verona, com’era?
                      «Bravo e serio. Non mollava mai, neppure quando lo fischiava tutto lo stadio».

                      Perché lo fischiava tutto lo stadio?
                      «Perché sbagliava troppi passaggi. Poi però i palloni li recuperava».

                      D’Alema dichiarò: «Zeman? A volte dire la verità è colpa gravissima».
                      «Era presidente del Consiglio, venne a trovarci a Trigoria. Non ha le mie idee politiche; ma l’importante era che fosse romanista».

                      Quali sono le sue idee politiche?
                      «Sono amico di Alessandro Di Battista. Mi ha anche proposto un seggio al Senato; ma la politica non fa per me, e forse neanche per lui. Nel 2018 però ho votato Cinque Stelle».

                      Sempre antisistema.
                      «Qualche sistema buono ci deve pur essere. Però ne ho conosciuti pochi».

                      Resta il fatto che lei non ha mai vinto nulla.
                      «Ma ho regalato emozioni, lanciato talenti. Il calcio è un gioco, e io l’ho vissuto così. Ho sempre preferito vincere 5 a 4 che 1 a 0».

                      San Siro va abbattuto?
                      «No. Meglio semmai abbattere l’Olimpico: la partita si vede male per colpa della pista d’atletica, che si usa una sera l’anno».

                      Ma potrebbe servire per l’Olimpiade.
                      «L’Olimpiade è nella migliore delle ipotesi uno spreco, nella peggiore un’occasione per rubare. Come lo fu Italia ’90. Come temo saranno i Giochi invernali di Milano e Cortina».

                      Alla fine del libro lei parla dei suoi due figli.
                      «Il primo, Karel, fa l’allenatore da 15 anni, anche se non ha ancora trovato la squadra giusta. Il secondo, Andrea, odiava il calcio, che gli portava via il papà. Ha avuto un brutto male al colon, ma è guarito. Ha lavorato alla Lega contro i tumori, ha fatto le campagne anti-fumo. Il figlio di Zeman contro le sigarette...».

                      Quanto fuma al giorno?
                      «Partivo da tre pacchetti. Ho ridotto a uno e mezzo».

                      Guardi che ha fumato un pacchetto e mezzo in tre ore.
                      «Ero un po’ teso per l’intervista...».

                      E Zeman finalmente sorride.

                      CorSera
                      Eh oh...diteme quello che ve pare, ma io ar Boemo je vojo bene.

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                        Se è vero che lo cercarono (come racconta lui a Cazzullo) Real, Barcellona, Inter...c'è da capire perchè disse no. Nell'intervista non lo spiega, forse lo scrive nel libro.

                        Io non credo che non fosse ambizioso. Dopo il Foggia lui voleva la Juve ma nel frattempo era arrivato Moggi (che scelse Lippi) e non se ne fece nulla.
                        ...ma di noi
                        sopra una sola teca di cristallo
                        popoli studiosi scriveranno
                        forse, tra mille inverni
                        «nessun vincolo univa questi morti
                        nella necropoli deserta»

                        C. Campo - Moriremo Lontani


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                          Originariamente Scritto da Sean Visualizza Messaggio
                          Se è vero che lo cercarono (come racconta lui a Cazzullo) Real, Barcellona, Inter...c'è da capire perchè disse no. Nell'intervista non lo spiega, forse lo scrive nel libro.

                          Io non credo che non fosse ambizioso. Dopo il Foggia lui voleva la Juve ma nel frattempo era arrivato Moggi (che scelse Lippi) e non se ne fece nulla.
                          Si, non l'ha mai detta e spiegata sta storia...ma Zeman pare sempre stato uno sincero e autentico, anche e soprattutto a suo discapito.
                          Le sue esperienze nella capitale furono agli antipodi, purtroppo per noi...alla Lazio aveva un 11 veramente forte e giocavano da dio. Alla Roma c'era un Totti che grazie soprattutto a lui, divenne quello che tutti sappiamo, ma intorno al Capitano c'era il NULLA condito dai problemi sorti dopo la denuncia famosa che ricorderemo bene.
                          La seconda esperienza alla Roma manco la considero, visto il caos e la disorganizzazione vergognosi.

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                            Però Sensi fece bene a prendere Capello. Con Zeman lo scudetto non lo avrebbe vinto...in Italia devi curare anche la difesa.
                            ...ma di noi
                            sopra una sola teca di cristallo
                            popoli studiosi scriveranno
                            forse, tra mille inverni
                            «nessun vincolo univa questi morti
                            nella necropoli deserta»

                            C. Campo - Moriremo Lontani


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                              Avete sentito della vicenda D'Onofrio? E' una barzelletta. Cioe'...questo qua e' stato nominato procuratore capo dell'Aia nel marzo 2021. Ma era gia' stato arrestato nel maggio 2020 perche' in pieno lockdown con la divisa militare (era stato sospeso dall'esercito perche' aveva dichiarato di avere una laurea in medicina...che non aveva!) circolava in Lombardia per effettuare consegne di sostanze stupefacenti!

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                              -Super League: 5
                              -Coppa Italia: 13
                              -Chinese FA Cup: 1
                              -Coppa UEFA: 5
                              -Champions League: 13
                              -Nazionale Under 21: 19
                              -Nazionale: 19
                              TOTALE: 270

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                                Sì avevo letto. Assurdo. Non c'è altro modo per definire la vicenda. Questo era ancora nell'AIA nonostante le pendenze, le bugie, le indagini su di lui.
                                ...ma di noi
                                sopra una sola teca di cristallo
                                popoli studiosi scriveranno
                                forse, tra mille inverni
                                «nessun vincolo univa questi morti
                                nella necropoli deserta»

                                C. Campo - Moriremo Lontani


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