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Nuovo problema muscolare per Stefano Sensi. Il centrocampista dell'Inter si è fermato per un fastidio alla coscia destra: si sottoporrà a breve ad esami per valutare l'entità dell'infortunio e per capire i tempi di recupero. Si tratta del quinto stop stagionale per l'ex Sassuolo, alle prese con diversi problemi fisici nella sua prima annata in nerazzurro tra adduttori (due volte), polpaccio e piede.
Se Paratici avesse fatto una campagna acquisti decente, non staremmo qui a parlare di zavorre, giocatori cotti, altri sempre rotti e altri ancora senza alternative (senza Higuain non abbiamo una prima punta).
Ricordiamoci che il peccato è sempre all'origine. Questo non assolve nessuno dalle proprie responsabilità, ma è la Juve che sostiene che il pesce puzza sempre dalla testa.
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La Juve che margini di potenziale economico avrà in questo prossimo mercato?
Originariamente Scritto da Sean
Tu non capisci niente, Lukino, proietti le tue fissi su altri. Sei di una ignoranza abissale. Prima te la devi scrostare di dosso, poi potremmo forse avere un dialogo civile.
La Juve che margini di potenziale economico avrà in questo prossimo mercato?
Usciranno delle analisi. Adesso è presto. Certo, il bilancio è gravato da stipendi alti o altissimi dati a gente che non serve più (Higuain, Khedira, Rabiot, Bernardeschi, forse Costa, forse Pjanic)...e questo permetterebbe di aprire risorse...ma questo è un discorso che viene dall'anno scorso, dal preCovid.
La Juve deve razionalizzare la rosa e dunque gli stipendi. Pagare gente utile, gente che non sta sempre fuori, gente che serva davvero.
PS: al 30 giugno scade pure Allegri: altri 7 milioni che non peseranno più.
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Inter, con la Sampdoria ultima chiamata per la corsa scudetto
Conte però deve fronteggiare l’emergenza infortuni: dopo Sensi, va k.o. Brozovic. Il tecnico nerazzurro: «Se superiamo la Samp siamo a 6 punti dalla prima. Non è un distacco abissale» Anche Moratti ha fiducia
L’altra ripartenza, stavolta per rientrare nella corsa scudetto. Eliminata una settimana fa dalla Coppa Italia, l’Inter riprende il cammino in campionato, interrotto tre mesi fa e segnato dalle ultime due pesantissime sconfitte contro Lazio e Juventus. Sarà forse per l’ottima partita giocata a Napoli o per il fatto di non aver mai perso tre gare di fila in campionato dal 2009, ma Antonio Conte ha fiducia e riapre il discorso scudetto. «I nostri margini d’errore sono minori rispetto a chi sta davanti, ma vincere contro la Samp significherebbe andare a 6 punti e non sarebbe un distacco abissale». Ci crede e non vuole sciupare l’occasione propizia. Anche per l’ex presidente Massimo Moratti «questa è una stagione talmente strana in cui ci si può aspettare una grande sorpresa: potrebbe non essere una lotta a due». Juventus e Lazio sono avvisate.
L’Inter si ripresenterà in un San Siro deserto con il lutto al braccio per il grandissimo Mario Corso. Di là c’è una Samp assetata di punti salvezza, costretta a fare a meno di Quagliarella. Conte però ha pochissimo da gioire. Dopo Sensi, indisponibile per tre settimane, si è fermato anche Brozovic. Un risentimento muscolare terrà fuori il croato probabilmente per le prossime tre partite e costringerà il tecnico a puntare forte su Eriksen. A Napoli è stato il migliore, ha mostrato grandi progressi. Il nuovo modulo, con il danese trequartista alle spalle di Lukaku e Lautaro, è come un vestito sartoriale cucito su misura da Conte. «Credo che Eriksen sia ora totalmente ambientato nella nostra realtà», sottolinea l’allenatore. L’ex del Tottenham è l’arma in più per correre dietro a Juventus e Lazio. L’altro grande alleato è il calendario. Le prossime otto partite non prevedono scontri diretti e all’andata Conte fece il pieno: 22 punti su 24. Bissare quel cammino aprirebbe scenari oggi non immaginabili. Di rado l’ex c.t. è di facili entusiasmi, è specialista però in partenze veloci e a Napoli si è subito vista l’Inter in ottima condizione fisica, più avanti degli avversari e di sicuro della stessa Juventus. Va riscoperta la Lazio, ma Conte giura di avere «percezioni positive» e di volersi giocare «il finale di campionato senza preclusioni e senza limiti».
L’Inter no limits cercata dall’allenatore nerazzurro deve però fronteggiare la moria di centrocampo (neanche Vecino è disponibile). Mischiata agli impegni ravvicinati, rischia di essere la variabile più pericolosa, per via dei tanti infortuni: l’Inter non ha una rosa ampia cui attingere. Conte ha deciso di adattarsi al periodo, già duro, e di dare respiro alla squadra che non starà più in ritiro alla vigilia delle gare interne. «I giocatori dormiranno a casa, ci ritroveremo il giorno della partita». Magari la novità servirà a distendere i nervi a Lautaro. L’argentino, dopo un girone d’andata eccezionale, si è inceppato, distratto dalla trattativa con il Barcellona. A Napoli in Coppa Italia è stato il peggiore in campo e con la Samp deve ritrovare un gol assente ormai dal 26 gennaio. Da allora in serie A il «Toro» ha saltato due gare per squalifica e giocato appena altre due partite, contro Lazio e Juve: in entrambe non è pervenuto. La chiamata e la benedizione di Messi, deciso a portarlo alla sua corte al Camp Nou, hanno mandato Lautaro fuori giri. Conte dovrebbe dargli un’altra chance, pure se l’alternativa Sanchez ha mostrato a Napoli di avere gamba e voglia di riconferma. Si riparte soprattutto dalla certezza Lukaku, anche se il centravanti belga ha bisogno di giocare con continuità per trovare la condizione migliore, spingere al massimo il suo gigantesco motore e trascinare l’Inter. Conte ci crede, però bisogna correre subito forte.
CorSera
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Mario Corso, morto un talento puro, incompreso dalla critica: si giocò la Nazionale per un gesto dell’ombrello
Era in anticipo sui tempi, un trequartista puro: è stato uno dei migliori d'Italia, decisivo come Pirlo, maligno come Platini. Ora merita il posto che non gli abbiamo mai dato
di Mario Sconcerti
Per Gianni Brera, Corso era soltanto il participio passato del verbo correre, qualcosa che non gli apparteneva. Brera non amava gli artisti, gli sembravano delle auto-definizioni, parole senza senso compiuto.Lui si definiva un principe della zolla, era dalla terra nuda che tutto doveva nascere. Ma su Corso sbagliava, come sbagliò su Rivera. Corso era anche un atleta, lento, ma fisicamente duro. Non riteneva di aver bisogno di correre, ma non era facile spostarlo. Guardate le fotografie dell’epoca, vedrete muscoli da mezzofondista.
Dicevano che era atipico ed era quello il primo errore. Non si è atipici se si giocano più di cinquecento partite in serie A e si segnano 104 reti. Un umorale forse, come Platini, ma non un atipico. Corso era un trequartista puro, ruolo che allora non c’era, stava nascendo dalle parti di Rivera ma non era capito. Allora si andava un po’ a spanne, o eri attaccante o un centrocampista. Bulgarelli, De Sisti avevano la qualità dei fantasisti, ma facevano il lavoro di regia, molto più applaudito dai critici, perché più logico, più normale. Come Mazzola l’attaccante. D’altra parte allora non c’era televisione, nessuno vedeva il calcio, solo Brera e pochi altri. E alla fine eri quello che loro decidevano, anche se non lo eri.
In realtà Corso è stato uno dei giocatori migliori che l’Italia abbia mai avuto. Certe sue invenzioni le ha avute solo Maradona. Discontinui sono tutti i giocatori quando vivono cercando il colpo diverso. Perché non sempre viene e nel frattempo perdi tempo. Ma Corso era sempre dentro il campo, vittoria dopo vittoria, spesso decideva lui. Era un titolare fisso nonostante Herrera non lo sopportasse perché era il cocco della signora Erminia Moratti, aveva paura gli parlasse male di lui. Eppoi Herrera era un sofista elettrico, Mariolino un epicureo, non erano nati per capirsi. A ogni apertura di mercato Herrera faceva la lista dei partenti e la dava a Moratti. Al primo posto sempre Corso. Moratti aumentava lo stipendio a Herrera e si teneva Corso. Ma anche Herrera se lo teneva e lo faceva giocare sempre. Ma quale discontinuo. Era divino ed esatto, un giocatore straordinario che non aveva bisogno di correre quanto gli altri, faceva correre il pallone. Oggi farebbe la differenza nell’Inter, nella Juve e in Nazionale. E nel suo cuore lento aveva anche carattere. Quando Giovanni Ferrari lo escluse dai convocati per il Mondiale in Cile, nel 1962, in fondo a una partita di notte in cui dette spettacolo, Corso lo andò a cercare sotto la tribuna e lo mandò a quel paese col gesto dell’ombrello. Non fu mai più chiamato. Questo è coraggio, è dignità. Sapeva di avere ragione lui. Peraltro l’Italia in Cile andò malissimo.
Era molto amato dai compagni perché li faceva vincere. Tagnin diceva che «se era in buona giornata Suarez sapevamo che non avremmo perso; se era in buona giornata Corso, sapevamo che avremmo vinto». Il commissario tecnico della Nazionale israeliana, Mandi, nel ’62 stava battendo l’Italia a Tel Aviv 2-0 alla fine del primo tempo. Poi entrò Corso, aveva ventuno anni. Segnò due gol, rovesciò da solo il gioco e il risultato. Per Mandi fu come un’apparizione: «Ho visto il piede sinistro di Dio».
Poi le sue punizioni, sempre uguali, sempre dalla stessa posizione, sempre prevedibili e sempre in gol. Le chiamarono «a foglia morta». Noi diamo definizioni a tutto quello che non capiamo, serve a normalizzarlo. Ma nessuno in Italia ha mai più battuto punizioni così. Maradona, Mihajlovic, Del Piero, Totti gli davano più forza. Corso era inerzia, pigrizia, esattezza. Una presa in giro. Mi dispiace veramente sia morto in silenzio. Il poco che era la Nazionale di allora non ne ha fatto un giocatore di tutti, solo degli interisti. Ma Corso era infinito e divisivo, era il faro che non vuole essere visto, aveva dentro Coppi e Bartali insieme, l’intera valigia del calcio che portava senza avvertirne il peso, irraggiungibile. Quando nel 1970 andò via Suarez se ne ebbe la conferma. Corso scalò in regia, aveva ormai trent’anni, era completo. E l’Inter riprese a vincere.
Il calcio non ha quasi mai memoria, si ricorda solo quello che si vede. Tanti ragazzi mi scrivono per chiedermi se davvero Baggio sia stato come Zico. Ne dubitano, non lo conoscono. Nel calcio vince l’ultimo che ha fatto gol. Per Corso spero avvenga l’opposto. Merita un posto che non gli abbiamo mai dato. È stato limitato dai luoghi comuni di una critica che era l’unica allora ad avere diritto di parola. Ma se riusciamo a capire che è stato decisivo come Pirlo e maligno come Platini, forse gli rendiamo la giustizia che merita.
CorSera
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Psg, niente Champions per Cavani: andrà via a fine giugno
L'attaccante uruguaino, in scadenza, dice no al prolungamento del contratto fino ad agosto, Tuchel non lo avrà a disposizione per la fase finale della coppa. Stessa decisione per Meunier
Edinson Cavani lascerà il Psg alla scadenza del contratto, vale a dire il prossimo 30 giugno. Il 33enne attaccante uruguaiano ha detto no alla proposta del club francese di prolungare di due mesi l'accordo in modo da essere a disposizione di Tuchel per la fase finale della Champions in programma ad agosto a Lisbona. Cavani, bomber più prolifico nella storia del Psg (200 gol), non è il solo ad aver rifiutato il mini contratto offerto dal : la stessa decisione è stata presa da Thomas Meunier, 28enne difensore belga, anche lui in scadenza a fine giugno. Meunier avrebbe già un accordo con il Borussia Dortmund. Il Psg ha invece trovato un accordo con il Siviglia per prolungare fino al 31 agosto il prestito di Sergio Rico, il club francese potrà contare anche su Kurzawa - che sta trattando il rinnovo - e Choupo-Moting, che ha detto sì al mini rinnovo di due mesi. Ancora da decidere la situazione Thiago Silva, anche lui in scadenza.
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I bianconeri sono voce di palazzo, non urla di piazza.
Se cerchi delle risposte, la storia ti è sempre buona consigliera. Anche nelle vicende del pallone. Il faticoso e zoppicante cammino della Juve sarriana ci rimanda alla storia stessa del club bianconero, in cui se c’è una ciambella che mai è venuta fuori col buco, è quella delle rivoluzioni. Due i casi più eclatanti, quello di Luis Carniglia alla fine degli anni sessanta e l’altro di Gigi Maifredi trent’anni fa. Correva il 1969, e a sostituire dopo cinque anni Heriberto Herrera sulla panchina bianconera fu chiamato un pittoresco argentino giramondo, Luis Carniglia; questi imboccò la via della rivoluzione, che presto si tradusse in un vicolo cieco.
«Heriberto faceva el movimiento? Io lo abolirò. Non mi piacciono i giocatori muscolari. Io adoro gli artisti, detesto chi sa solo correre» disse al suo arrivo.
Non gli andò bene. Finì che nessuno lo seguì, litigò con mezza squadra, e lo licenziarono dopo sei partite chiamando al suo posto Ercole Rabitti. Dopo di lui la Juventus non avrebbe più esonerato più nessuno fino al 2009 quando fu dato il benservito a Claudio Ranieri. Stesso trattamento fu riservato al suo sostituto Ciro Ferrara nel gennaio della stagione seguente.
Nessuna rivoluzione in entrambi i casi: va detto infatti che era quella una Juventus che annaspava nella traversata del deserto di Calciopoli. Carniglia, Ranieri e Ferrara condividono il podio sul quale nessuno vorrebbe mai stare: sono gli unici allenatori ad aver subito l’esonero nella lunga storia della Juventus.
La scorsa estate Maurizio Sarri è stato chiamato alla corte di Madama, essenzialmente per due motivi; vincere, la Champions in primis (ormai un’ossessione), e divertire. Massimiliano Allegri ha fatto man bassa di trofei in Italia, ma non ha portato in bacheca quello più ambito, nonostante abbia condotto la squadra a due finali continentali in tre anni. Fatali, un anno fa, i secondi 45 minuti dei quarti di Champions nel match di ritorno a Torino contro l’Ajax.
Quanto al gioco, i palati fini gli imputavano fosse un votato machiavellico e assai poco spettacolare. Troppo asciutto, troppo calvinista il suo credo. E allora grazie e arrivederci. In Sarri, la dirigenza ha individuato l’uomo della svolta, capace di implementare la rivoluzione del calcio spettacolo. Peccato che il tutto sia finora rimasto ancorato ai proclami del campionato d’agosto, quello delle parole che conosce solo vincitori, e che del decantato sarrismo a Torino non si sia vista che qualche fugace e impercettibile traccia qua e là.
Lo stesso, ma è ancora prematuro dire se finirà nello stesso modo, fece la Juve di Luca Cordero di Montezemolo nel 1990, quando seguì il modello del Milan stellare di Arrigo Sacchi sulla via del calcio spettacolare e vincente. A un monumento come Dino Zoff non bastarono le vittorie in Coppa Italia e Coppa Uefa: Montezemolo scelse Gigi Maifredi come l’uomo della rivoluzione per lanciare la sfida a Berlusconi. Era quella una squadra che poteva contare sui due eroi delle notti magiche: Roberto Baggio, arrivato a Torino a pochi giorni dal mondiale tra i tumulti nelle strade di Firenze, e Totò Schillaci, che con Zoff in panchina era esploso.
Come Sacchi aveva portato da Parma Mussi e Bianchi a Milanello, da Bologna Maifredi arrivò a Torino con Luppi e De Marchi; lo statuario, nella pura accezione del termine, libero brasiliano Julio Cesar, e il funambolo tedesco Tommasino Hassler i due rinforzi stranieri. E poi l’integralismo della zona, e l’idea di un calcio spensierato, arioso e offensivo. Che qualcosa non funzionasse, lo si capì subito, quando la Juve fu fatta a polpette dal Napoli in Supercoppa al San Paolo; per uno come Stefano Tacconi, non dev’essere stato tanto piacevole raccogliere cinque palloni dal sacco quella sera. Si parlò allora di lavori in corso, e si sostenne come Maifredi avesse bisogno di tempo.
Lui prometteva champagne d’alto lignaggio come il Veuve Cliquot che, prima di fare dell’allenatore la sua professione, da rappresentante di vini e liquori vendeva a enoteche e ristoranti del bresciano; nei calici di quel campionato, tuttavia, la sua Juve non servì alla fine che un vinello assai sbiadito e disarmonico, bocciato su tutti i fronti alla prova dell’assaggio. Maifredi non fu esonerato, fu lasciato al suo posto, ma sempre più solo in compagnia di un destino segnato e di uno spogliatoio che gli aveva ormai girato le spalle. L’ultima fetta della stagione fu per lui un calvario, e la sua avventura sulla panchina della Juventus si tradusse in colossale fallimento.
Fu così che la mancata rivoluzione generò la restaurazione; Montezemolo passò alla Ferrari, e al timone di Piazza Crimea tornò Giampiero Boniperti che volle di nuovo al suo fianco Giovanni Trapattoni, fedelissimo uomo dell’Ancien Règime. La storia è fatta di cicli, che si ripetono attraverso un susseguo di corsi e ricorsi. La storia dice come la Juve sia da sempre voce di palazzo e mai urla di piazza, sia forza di governo e mai di opposizione, sia un partito conservatore e mai radicale. Ecco perché le rivoluzioni sono le uniche ciambelle che da quella casa mai son uscite col buco. Presto sapremo se sarà così anche stavolta.
I bianconeri sono voce di palazzo, non urla di piazza.
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Se a Sarri avessero consegnato una rosa rinnovata dal mercato, senza pesi morti (o vecchi o perennemente infortunati) e zavorre, forse potremmo dare un giudizio più centrato su questa "rivoluzione" che sta con le baionette spuntate.
In caso di fallimento, avremo sempre il dubbio dell'aver navigato con una ciurma non tutta adatta alla traversata oceanica, in specie se devi passare il Capo Horn.
Ieri sera però è ripreso il campionato (il Torino sempre più invischiato nella lotta per non retrocedere: sarà per questo che Cairo pregava a mani giunte per chiuderla lì col campionato?) non ci sarà più tempo per pensare ma solo per giocare.
L'Inter stasera recupera con la Sampdoria. Ranieri cerca i punti per salvarsi, Conte quelli per accorciare in testa e poi giocarsela fino in fondo (Juve e Lazio devono ancora incontrarsi, per cui in quella giornata recupererà su almeno una delle due, quindi l'Inter è, almeno sulla carta, ancora in corsa).
Da lunedì ripartono tutte le altre con una serie di partite spalmate a nastro continuo su tutta la settimana per un mese, in un mese dove di solito le squadre stavano al mare. Può accadere di tutto.
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Nome esotico per la difesa della Lazio: secondo il Guardian, i biancocelesti sono tra le squadre candidate ad accogliere Kim Min-Jae, difensore sudcoreano del Beijing Gouan, per il quale Lotito è pronto a mettere sul piatto 15 milioni di euro.
Kim Min-Jae c'è qualche siciliano qui? Sapete come suona in Siciliano?
Non ricordavo che Palamara fu il PM di calciopoli.... Adesso si spiega l'inspiegabile.
I meglio (Auricchio, Narducci, Palamara) li abbiamo trovati noi. Nemmeno in Corea del Nord una tale concentrazione di casta giudicante, che il tempo sta mostrando per quel che era: politicizzata, affaristica, clientelare. Se pensiamo che poi, dal lato sportivo, ci fu un giudice autocratico (Guido Rossi) credo che gli juventini abbiano una e più ragioni di avere le balle ad elica quando si tratta di sfiorare l'argomento. D'altro canto, acqua passata non macina più.
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La Roma non trova pace. L’ultimo autogol è di Jesus
In un periodo già complicato per la sospensione del direttore sportivo Gianluca Petrachi ci si mette anche Juan Jesus ad alimentare le polemiche in casa Roma. Ogni giorno il club sta postando sui propri canali social un numero di maglia a scandire l'avvicinarsi del match contro la Sampdoria. L'altro ieri sarebbe toccato al 5 di Juan Jesus e invece è stata pubblicata una foto di gruppo. «Bello che nemmeno la Roma mi metta sul profilo ufficiale. Questo vuol dire fiducia!» la frase ironica del difensore brasiliano comparsa sotto il post. La reazione dei tifosi è stata immediata, sottolineando tra l'altro come l'ingaggio del giocatore fosse un peso per la società. «Pensi che con i miei quattro soldi il bilancio sia a posto? Hai saltato lezione di matematica? Venire a Roma non è mai stata una questione di soldi» è stata la risposta dello stopper giallorosso che ora rischia anche una multa. A parlare del bilancio della società lo aveva fatto anche Javier Pastore una ventina di giorni fa: «Il club ha bisogno di soldi e per questo dovrà vendere giocatori». La sensazione è che a Trigoria non ci sia un punto di riferimento e, con Pallotta assente dalla Capitale ormai da oltre due anni, tutti pensano di poter alzare la voce e commentare lo stato del club.
(Corsera)
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