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Un saluto, un pensiero, una preghiera per Manuel/Manx

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    A seguire la bella Postfazione che Luigi Iannone ha scritto per il libro di Manuel. Una postfazione con accenti e partecipazione personali, dove anche Iannone nota la presa di coscienza "senza infingimenti" che aveva caratterizzato l'ultimo periodo di Manuel e che si riversa anche nel suo libro, come confessa egli stesso nella "Avvertenza", per cui Junger diventa una sorta di "scusa" o pretesto per parlare, dal suo punto di vista estremo, dei contorni, dei nuclei e delle direzioni del tempo e del mondo, in una sorta di diario "filosofico" e finale.

    Libro dunque profetico. Lucido. Un libro di nuda profondità e purezza. Acquistatelo perchè è bellissimo.
    ...ma di noi
    sopra una sola teca di cristallo
    popoli studiosi scriveranno
    forse, tra mille inverni
    «nessun vincolo univa questi morti
    nella necropoli deserta»

    C. Campo - Moriremo Lontani


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      Ernst Jünger reload

      Postfazione di Luigi Iannone

      Una comune passione jüngeriana. Era questo che mi accomunava a Manuel Rossini… uno slancio impetuoso ed enorme per la biografia umana e intellettuale di Ernst Jünger. Ma non solo!

      Lo avevo contattato alcuni anni fa invitandolo a mandare un contributo saggistico per un volume collettaneo che stavo curando proprio sul filosofo tedesco e lui, oltre ad accettare senza indugio, fu prodigo di consigli. Da quel momento ci mantenemmo in contatto grazie a numerose mail e interminabili telefonate.

      Una condizione, allo stesso tempo, strana e straniante. Fino a che il male non lo iniziò a divorare con una certa demoniaca prepotenza e ne fiaccò quasi integralmente le forze, abbiamo continuato a sentirci. Periodicamente ci incrociavamo con queste lunghissime chiacchierate telefoniche che duravano non meno di un’ora… un misto tra confessioni, rimpianti e idee per eventuali ripartenze e quindi nuove pubblicazioni o scritti brevi a forma di articolo, per poi, alla fine, darci appuntamento per un nuovo incontro, sempre virtuale: perché non ci siamo mai conosciuti di persona!

      Discorrevamo di molte cose: idee per nuovi libri, ipotesi di studio, libri di seconda mano trovati su bancarelle eppur utili per le nostre rispettive pubblicazioni e per approfondimenti di vario titolo, adesioni o rifiuti a nascenti riviste culturali e, talvolta, anche di politica. Quest’ultima entrava e sollecitamente usciva però dai nostri scambi di vedute come una sorta di cometa che appare, manifesta la sua presenza e poi svanisce subito dopo. Il focus e il nostro sguardo analitico era indirizzato sulla umanità decadente e priva di ogni minimo sussulto che esprimeva quelle classi dirigenti e non su quest’ultime.

      C’era tuttavia un leit motiv che lo tormentava e che trovava consonanza nelle mie pene. Un’angoscia che ho mitigato gradualmente arrendendomi forse per pura codardia da ostacoli che ritenevo invalicabili e che Manuel, mai domo da questo punto di vista, ci teneva ad affrontare a qualunque costo e a valicare. Un tormento che probabilmente ha generato quel Male che lo ha divorato. Perché non è vero che le pene della vita vengono superate col tempo e che le ferite si rimarginano. Non è assolutamente vero!

      Sono baggianate… fandonie da poetuncoli di quart’ordine; consolazioni per chi vuol chiudere gli occhi e non avere consapevolezza della nostra piena tragica esistenza. Tutto, infatti, resta ancorato nel fondo della nostra anima, la quale viene lentamente recisa e dilaniata dai frammenti setacciati e sedimentati in quel piccolo anfratto durante una intera vita. In taluni, questa consapevolezza non è data; in altri, è appena avvertita; in Manuel, era invece una condizione di piena cognizione da cui, purtroppo, è impossibile trovare scampo. Non è detto che un simile presupposto porti allo sgretolamento della vita e alla corruzione angosciante di una quotidianità pervadente ma di certo incide nel profondo e indirizza propositi, scelte, atteggiamenti. Inoltre, la consapevolezza è sintomo di maturazione ma spinge inesorabilmente verso la sofferenza!

      Abbiamo passato molto tempo a discorrere del malcostume imperante nelle università italiane con quei torbidi meccanismi di valutazione in cui si consolidavano e continuano a consolidarsi i tirannici poteri dei Baroni. Una fanghiglia in cui rozzamente si alimentano compiacenze, scambi di favore, concorsi farlocchi e verso la quale molti pongono una risibile fiducia, una sorta di fideistico ottimismo.

      Manuel era invece uno studioso fuggito dall’Italia (per meglio dire, obbligato alla fuga)… da un terra matrigna e infame che non riconosce il merito e le capacità e che non lo aveva voluto stringere a sé. Altri erano e sono ancora i giochi che ammantano come una piovra le istituzioni della scuola e le accademie.

      Nell’ultima fase della sua vita mi confessò della malattia e quelle parole mi creavano ogni volta non poco turbamento.
      Aveva un approccio – almeno con me, ma ritengo anche con i familiari e gli altri conoscenti – disperato, cioè di chi sa che la battaglia andrà persa, e tuttavia didascalico e puntuale. Non un’affannosa afflizione (ovviamente, c’era anche quella!) ma una cronaca particolareggiata di sintomi, dei farmaci, degli ospedali “visitati” e da “visitare”, delle tipologie di dolori, il tutto con una tragica spietatezza. Coglievo l’ambivalenza di una posizione di resistenza da un fronte che sapeva essere di lì a poco sopraffatto dal nemico. Combatteva ma con armi impari un nemico più forte.

      A questa onestà intellettuale e a questa dignità personale facevo fatica a rispondere con pari sincerità. Come quei generali che ordinano alle truppe di mantenere le posizioni, pur avendo consapevolezza dell’accerchiamento e della soverchiante forza nemica e quindi dell’esito finale della pugna, così lo invitavo a combattere nell’attesa di una svolta positiva che, a quel punto, compresi che non sarebbe mai arrivata.

      La fine mi era stata preannunciata ed ora che leggo questo suo ultimo libro mi rendo conto di quanto taluni dei temi jüngeriani abbiano così profondamente attraversato i suoi studi e ancor di più le sue vicende private. In fondo, perde chi non lascia nulla su questa misera terra. Perde chi non combatte o chi non lascia in eredità un frutto di questo suo peregrinare.
      Manuel Rossini ci ha lasciato questi scritti e quelli precedenti come testimonianza dell’amore per la filosofia e della sua battaglia di vita.

      Postfazione a Ernst Jünger reload (Edizioni Ombre Corte), libro postumo di Manuel Rossini

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      C. Campo - Moriremo Lontani


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        Ciao Manx, già 2 anni sono passati, come vola il tempo :-(

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          Ore 21:

          “Luoghi, storia e storie di Fabriano di Renato Ciavola- Sassoferrato - Doc Denominazione Origine Culturale


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            Ciao Manx

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              “Ernst Jünger reload”, Manuel Rossini e il suo libro postumo


              «Con lo scrittore e filosofo tedesco ha avuto in comune il coraggio di affrontare la vita, era un uomo mite e piacevole ma nella sua guerra personale ha combattuto come un leone»

              Si è svolta ieri in diretta streaming la presentazione dell’opera postuma Ernst Jünger reload. Maschera e catastrofe 2: Biopotere e Mobilitazione Totale, Casa editrice Ombre Corte, del filosofo e docente jesino Manuel Rossini, scomparso l’8 giugno di due anni fa. Evento organizzato dalle Amministrazioni comunali di Monte Roberto e Maiolati Spontini e ospitato sia dalla pagina facebook del Comune di Monte Roberto che dalla Biblioteca La Fornace di Moie.

              A moderare l’incontro la professoressa di filosofia e storia al liceo Cavalleri di Parabiago Sara Fumagalli, un incontro non solo commemorativo ma di intensa riflessione, alla quale hanno preso parte Giovanni Giorgini, professore di storia delle dottrine politiche presso il Dipartimento di scienze politiche e sociali dell’Università di Bologna e professore aggiunto alla Columbia University di New York e Maurizio Guerri, professore di filosofia contemporanea e storia della comunicazione sociale presso l’Accademia di Belle Arti di Brera.

              Un giovane collega brillante e originale, lo ricorda il professor Giovanni Giorgini, la sua è «un’opera di interpretazione su Jünger e in parte un utilizzo delle categorie elaborate da quest’ultimo per interpretare alcuni fenomeni assolutamente contemporanei. Quando ho visto in bozza questo volume sono rimasto estremamente sorpreso dalla fantasia e dall’originalità di Manuel Rossini, era capace di trovare in oggetti quotidiani e in altre cose che fanno parte dell’arredo della nostra vita e di cui non ci curiamo, qualche aspetto interessante. Con Jünger,Manuel ha avuto in comune il coraggio di affrontare la vita, era un uomo mite e piacevole ma nella sua guerra personale ha combattuto come un leone».

              «La parte più interessante è per me il lungo excursus che aggiunge alla fine, nel quale entra personalmente in dialogo con l’autore e usa le sue categorie per esaminare la nostra realtà contemporanea. Un lavoro nel quale si vede la grandissima cultura filosofica di Manuel Rossini ma soprattutto la sua curiosità intellettuale: nell’usare, ad esempio, John Steinbeck per studiare la similitudine tra guerra e lavoro».

              Un altro aspetto notevole sono le fotografie, scelte da Jünger stesso, che corredano il libro, le quali illustrano vari aspetti della vita quotidiana in una luce speciale, come sostiene il professore Giorgini.

              «La fotografia opera come una sorta di anestesia – commenta Maurizio Guerri – come una forma di sospensione della vita momentanea del corpo che in quel momento viene trattato come se non provasse dolore. Ma tale sospensione apre a una intrusività dell’inorganico all’interno della vita».

              «L’idea del libro – continua – non è quella di restituire una presunta oggettività del pensiero dell’autore ma di renderlo fertile e di portare avanti quello che era un modo di pensare, uno stile di scrittura, una prospettiva di lettura e di interpretazione del mondo».

              Ernst Jünger reload: presentato in diretta dalla biblioteca "La Fornace" il libro postumo di Manuel Rossini: ricordi e riflessioni
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                A corredo delle recensioni e degli articoli postati, ecco il podcast della presentazione del libro, per chi non avesse potuto seguirla in diretta e per chi volesse vederla per la prima volta.

                I due professori sono stati, a mio giudizio, bravissimi...in specie il primo (Giovanni Giorgini) perchè ha colto gli aspetti personali dell'opera, ovvero di come Manuel usi Junger per parlare non solo di Junger ma dei nostri tempi e delle prospettive - e di se stesso, perchè il libro si compone di parti autobiografiche.

                Un libro bellissimo, dove esce fuori tutta la lucidità e la bravura di Manuel e tutti quegli aspetti e quei modi di ragionare che noi abbiamo avuto la fortuna di poter cogliere e frequentare per tanti lunghi, e troppo brevi, anni.

                Last edited by Sean; 11-06-2021, 16:36:15.
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                  2 anni... dio....
                  sigpic
                  GORE - REBUILD THE BODY
                  (non so il front , ma il back pare migliorato )


                  Citazione:
                  Originalmente inviato da leonardoS
                  maledetto mongue, io sono 177cm quindi basso e pelato e grasso, il top secondo i canoni monguiani. Ma siccome lui è un secco sansa palle e sansa tesserino ifbb e scurnacchiat me ne fotto
                  http://www.bodyweb.com/forums/showpo...76&postcount=5

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                    Mi fa davvero un enorme piacere scoprie che anche la rivista online "L'Intellettuale Dissidente" (qualcuno la conoscerà per averla letta o sentita o per averci sbirciato qualcosa o per frequentarla) ha dedicato un articolo a Manuel.

                    Non riguarda il suo libro su Junger ma il diario, quell' "Ora siamo in due" uscito lo scorso anno.

                    Posto qua l'intero articolo a firma di Luca Caddeo, perchè merita di restare in questo 3d non solo sotto forma di link che rimanda ad una fonte ma nella sua interezza, perchè l'estensore ha fatto un lavoro superbo a mio giudizio.

                    __________________

                    Così muore un cane sciolto

                    Il filosofo Manuel Rossini è morto l’otto giugno 2019. Lo ricordiamo parlando del suo libro “Ora siamo in due”, che racconta la sua battaglia contro il cancro

                    “Decidersi per la propria morte è morire con dignità e in dignità. Da veri uomini”.

                    Sarebbe stato bello corrispondere ancora col filosofo Manuel Rossini per discorrere di Jünger, Heidegger, Nietzsche, Evola e Löwith. Bello confrontarsi sull’inferno accademico, sugli intrighi che lo connotano, sulle speranze e sulle disillusioni, sul mondo moderno e sulla falsa meritocrazia, sull’appiattimento dei valori a un’unica uniformante assiologia. E ancora sul biopotere e sulla “forza di culto” della Mobilitazione Totale, sul mascheramento e sulla Tradizione, sui non-luoghi della postmodernità e sulla Tecnica, sul ruolo della filosofia e sul suo rapporto con la vita. Ma la stessa vicenda biografica di Manuel testimonia quanto proprio la vita – altra faccia della morte – possa essere tragicamente insensata e, almeno vista con occhi troppo umani, crudele, cinica, quasi appunto fosse “umana” – spietata. Sarebbe stato bello, dunque, ma Manuel Rossini è trapassato l’otto giugno del 2019, a soli quarant’anni, dopo aver combattuto con grande coraggio contro il cancro. Perciò non è più possibile corrispondere con Manuel né è più possibile – come capita agli umani – abbandonarlo.

                    Manuel però non se n’è andato senza un retaggio, un monito, un insegnamento, giacché – da acuto filosofo dell’anima – ha sino alla fine tra-scritto la sua battaglia. Perciò – più che raccontare i suoi saggi filosofici – resta bello, quantunque inutile e forse un po’retorico, omaggiarlo così, con le sue definitive considerazioni, con le sue ultime intuizioni, con le aperture di con-fine che il suo scrivere nell’estremo momento della agonia ci dona. Il “diario” oncologico di Manuel, d’altronde, ha la forza di non essere un diario; è piuttosto un testo che – a dispetto del dolore a tratti insopportabile e disumanizzante – cela tra le righe un’originale esegesi della esistenza e una sorta di eroico stoicismo di cui, in un mondo di mollicci schiavi incatenati, lo stesso Manuel resta emblema, esempio imperituro.

                    Manuel Rossini nasce a Jesi, nel 1979, il 29 marzo – lo stesso giorno di Ernst Jünger. Dopo il diploma si laurea in Filosofia all’Università di Bologna e consegue il Dottorato presso l’Università di Parma. Successivamente si reca in Germania ed è docente incaricato di Filosofia presso il Collegium Borromaeum di Freiburg i. Br. Insegna altresì Filosofia e Sociologia all’Università della stessa città e svolge attività di ricerca presso il Leibniz Institut für europäische Geschichte di Mainz. Nel 2016 è docente incaricato di Sociologia presso l’Università di Basel (Svizzera). Nel 2017 tiene un corso su George Simmel all’Università di Bologna che porta a compimento nonostante nel frattempo abbia scoperto il tumore. Oltre a proporre vari contributi in importanti riviste, nel 2009 Rossini pubblica la monografia Karl Löwith: la questione antropologica e nel 2012 cura e traduce il carteggio intitolato Karl Löwith-Leo Strauss, Oltre Itaca. La filosofia della emigrazione. Nel 2014 esce una monografia a quattro mani, L’ambivalenza della modernità, e nel 2015 la monografia I non luoghi dell’inumano, dedicata a Ernst Jünger. Prima che la malattia lo travolga completamente,Manuel lavora a un’altra opera su Jünger che è uscita postuma quest’anno: Ernst Jünger reload.Maschera e catastrofe 2. Biopotere e Mobilitazione Totale. Il testo al quale in questo inadeguato ricordo ci riferiamo, ha un titolo evocativo: Ora siamo in due– vale a dire Manuel e il tumore – ed è stato pubblicato da Le mezzalune nel 2020. Il libro comprende le toccanti considerazioni di Manuel Rossini, la premessa della sorella Ilaria, la prefazione della madre Livia Catena, la testimonianza delle persone più care al giovane filosofo e la postfazione di Sabina Geminiani.

                    Manuel è un cane sciolto, uno che non baratta la libertà, diciamo pure la filosofia, col successo, uno che con determinazione vuole vivere della sua passione, ma che alla fine considera indispensabile affrontare argomenti “pericolosi”, opporsi con rigore al pensiero unico, affrontare il mondo in compagnia dei più grandi contestatori della modernità – forse a discapito, come accade, della ascensione all’Olimpo della intellighenzia accademica. Manuel resta un cane sciolto pure dopo la notizia del cancro e sonda, finanche nel dolore, la vita senza filtri artificiali, astratti; per il filosofo esperto di Simmel la filosofia è infatti una forma di vita, è sempre tra le righe, è implicita come il respiro, come l’aria. Dopo l’annuncio della malattia avviene in lui una sorta di mutamento antropologico poiché, sulle ceneri del vecchio Manuel, si erge un nuovo tipo umano definito nel diario il “mezzo-morto”. Il superamento dell’uomo rimanda a Nietzsche e, sebbene in questo caso si potrebbe pensare piuttosto alla nascita di un sotto uomo menomato dalla malattia, si tratta invece ancora di un uomo “super”; cioè, in un altro senso, di un tipo umano che, nel contesto più degradante e terribile, custodisce integralmente l’umano nel suo significato più alto. Il mezzo-morto sopravvive in una radura apocalittica, distopica. Un mondo di dolore e di lotta, dove c’è sempre guerra e dove nessuno dei contendenti può avere la meglio: vince jüngerianamente solo il banco, al quale si paga il pegno, da cui non si può fuggire: malgrado la momentanea speranza che ci fa credere di avere il Fato dalla nostra parte, la morte è solo rimandata.

                    Nel campo di battaglia ci sono le metastasi in movimento e c’è – improbabile, distruttiva aviazione e sorella – la Chemioterapia. Manuel ha quindi come amica questa aviazione che quando bombarda il nemico, pur ritardando l’ineluttabile fine, devasta il corpo. I brufoli, effetto della tremenda cura, sono gli ultimi frammenti di vita… che vengono fuori… sotto forma di morte. Il cosmo di Manuel ha anche un proprio calendario organizzato intorno alle date della Chemio e una “trinità divina” – Folfiri, Erbitux, Cetuximab – che, oscura e sterminatrice Provvidenza, contrasta il Signor Adenocarcinoma infiltrante – cioè l’antagonista, l’ospite inquietante. Le cellule arse dalla Chemio sono il sacrificio a questa oscura divinità. La sorella TAC impone cosa fare, quando e dove attaccare – è lei che decide per lo sfratto definitivo. La percezione in questo universo muta, prevalgono il bianco ospedaliero, il giallo plasticoso delle sacche chemioterapiche.

                    Il cancro, come la tela di Penelope, man mano che progredisce disfa e ti disfa. La casa di prima diventa l’esterno, diventa “ieri” e solo nel reparto il mezzo-morto può gestire la propria vita alla luce del ruolo de-finitorio assegnatogli dalla indifferente sorte: egli vive soltanto come malato oncologico e la vita è mobilitata totalmente, automaticamente, per condurre a compimento il progetto: la morte dell’inquilino abusivo, che a sua volta, è carnefice e vittima. Il tumore è come un gemello cattivo che si tende a nascondere perché le altre persone non possono capirlo. Le altre persone in buona fede ti chiedono come stai, quando è ovvio che stai malissimo, ti danno una pacca sulla spalla, ma questa ti affossa ancora di più.

                    I vivi non possono comprendere i mezzo-morti. Bisogna dunque difenderlo, custodirlo, il cancro. Con una dedizione che solo l’amore può inaugurare, la famiglia e gli amici stanno vicino al coraggioso Manuel sino alla fine. Il padre scrive addirittura per lui le ultime pagine del diario, raccontando le parole che precedono il silenzio, gli istanti che non hanno battito. Manuel ama la natura, i gatti, il bodybuilding, ama le moto e i film di Bud Spencer. Alcune di queste passioni – come il culturismo – non lo lasciano neppure nei momenti dell’agonia. Ma è difficile condividere se si sta male, malissimo. Quando si è mezzo-morti, malgrado l’amore, si è soli, tagliati dal modo di essere degli altri, ben prima che il corpo si spenga. D’altronde, la solitudine dei mezzo-morti è ben più radicale di quella che ci accomuna tutti nella morte. Il vivere per la morte si concentra. La vita, che è sempre un pro-getto, è ora gettata a breve, brevissimo termine – è un progetto a scadenza breve – non solo, soprattutto attraverso la TAC, la vita è un programma preordinato, un film di cui si conosce l’epilogo. La vita di tutti ha la stessa conclusione, ma solo in questo caso il percorso è rigidamente scandito. La standardizzazione, cifra del nostro tempo, la statistica che lo caratterizza, sono ora foggia della piccola vita del malato. I numeri, l’oggettivazione, l’incasellamento sono il destino:

                    “Il malato di cancro è un puro oggetto di uso e abuso medico-scientifico, uno svuota-sacche di veleno terapeutico.”


                    La malattia che distrugge il corpo racchiude in uno spazio più circoscritto l’essenza tragica del reale, il mondo a breve termine è la vivida e involontaria metafora della vita. La sublimazione dell’essenza ne amplifica la portata: Manuel ci porta dentro la vita – che è tragica per tutti – attraverso la morte. La morte è sempre preparazione alla morte, è sempre vita che si prepara alla morte. Ma ci si deve preparare nella estrema semplicità e onestà d’animo poiché la propria morte è sempre una questione di semplicità e sobrietà. Bisogna morire della propria morte, senza infingimenti, senza vanagloria, per essere ricordati solo per quello che si è:

                    “Lasciatemi morire della mia morte! Meglio l’oblio della tua persona che il ricordo fittizio che non ti appartiene! (…) io sono pronto al mio ricordo e al vostro oblio!”


                    Manuel muore abbandonando la vanità e confida nell’oblio di chi gli sopravvivrà: sarà quello il vero, più completo e più onesto atto di memoria! Eppure, ciò non implica la volontà di essere dimenticato, quanto il desiderio di tramandare solo l’Erlebnis, vale a dire la propria puntualità storica, le esperienze intime, vissute, comprese, assimilate, intenzionali e concentrate nella propria esperienza. Nulla insomma di oggettivato, nulla di edulcorato, ma la vita esperita nelle sue contraddizioni, propositi, speranze, sfaccettature, errori.

                    Ecco perché il filosofo, senza finzioni, punta verso la cosa stessa mostrandosi nel momento del calvario fenomenologo della sofferenza. Il dolore che l’uomo moderno cerca di esorcizzare è l’essenza occulta di ogni viaggio esistenziale e nell’orizzonte della malattia terminale il motto di Ernst Jünger secondo cui il cammino conta più della meta, sembra perdere di senso. Infatti l’approssimarsi della morte mediante l’atroce tortura del dolore rende il quotidiano ancora più illogico. Il dolore resta sempre irrazionale, è al di qua della tecnica, non si può digitalizzare, non è virtuale, il dolore è come un barattolo di miele: quando ci mettiamo un cucchiaio dentro cercando di non imbrattare le dita, le imbrattiamo ancora di più. Il dolore è come i fili di miele che vanno da dito a dito, col dolore ti porti dietro i filamenti collosi del boccone precedente anche nel successivo. Il dolore è anche momentaneo tentativo di contenimento del dolore, morfina di stato, viaggio non voluto, catabasi verso se stessi, dialogo lisergico con l’inquilino abusivo, uscita temporanea dal loop demoniaco, automatico e disumano.

                    Il tempo è s-travolto quando si è certi che ci si approssima al nulla. Assumere su di sé il nulla è “farsi cancro”, accettare il ciclo della vita, sentirsi parte – in-significante – del tutto, superare l’identità, esperire anticipatamente la propria naturalità per ri-definire nel tempo diventato “ora” gli istanti rimasti. Il passato appare come un’altra vita che non deve prevalere, pena la schiacciante nostalgia, la depressione: bisogna accogliere, abbracciare la trasformazione. Il futuro invece è, come si accennava, lo stesso presente perché, nonostante si percepisca la morte, non si conosce esattamente quando si appaleserà e ogni attimo assume un significato nuovo: si morirà presto, solo questo si sa: il tempo si contrae, ogni istante potrebbe essere l’ultimo, ogni sguardo quello definitivo. Il mezzo-morto vive in un limbo, sprofonda sempre nella stessa melma secondo i cicli della Chemio, che però non sono latori di novità palingenetica perché il tempo procede in cicli vuoti e nell’organizzazione della morte ritorna uguale a sé. Per questo la pagina bianca è metafora del vuoto e Manuel si sente un essere in potenza che si erge dal proprio vuoto o nulla.

                    D’altra parte, il foglio bianco è violato dalla brutalità estetica della penna, dai colori del tratto, dagli arzigogoli che decorano la pagina. Per Manuel bisognerebbe scrivere come si legge giacché solo la lettura è rielaborazione e riciclaggio e non un mero vomitare la negatività. Manuel dunque cerca di scrivere in modo edificante, il suo è uno sforzo immane, ma vittorioso. Il ricordo non deve essere solo decorativo o “momentale”; come diceva Nietzsche, non si tratta di ricordi archeologici, ma di attimi di creatività che partoriscono il nuovo – in questo senso, sosteneva Orwell, la lettura è palestra di libertà. Nella scrittura il tempo ausculta se stesso attraverso l’uomo. Il momento è magico, il tempo è sospeso, il suo Signore è l’uomo – il proprio universo intimo è formato, ordinato, denominato da lui. Scrivere durante la sospensione del tempo è dare forma alla sostanza – abbellire la vita senza addolcirla, abbellire il “mio cancro”, benché si tratti sempre di un piano di morte ben… impostato ed eseguito.

                    Quello di Manuel è un continuo tentativo ermeneutico che apre a una vita impossibile dove si è solo grazie alla morte, alle incombenze che lei pre-scrive, impone e sottopone. Il cancro è anche atroce scoperta della propria insignificanza e consapevolezza di quanto poco si conti all’interno della economia complessiva dell’universo:

                    “Morto un Papa (io) se ne farà un altro (c’è posto nel mondo… e noi siamo solo nullità nell’universo infinito!) Ricordatelo. Tutti. Tutti. Tutti”.


                    Il cancro non ti abbandona e ti costringe a forgiare una seconda coscienza talmente reale da permetterti di organizzare anticipatamente i dettagli del tuo game over: abbigliamento da cassa da morto, rifiuto del patetico fornetto, rinfresco alla memoria, fiori poco sgargianti, selvatici, nessuna mercificazione del corpo-cadavere. Il cancro ti costringe altresì al mascheramento che è funzionale all’attenuazione del dolore altrui; e anche in questo senso ti guida – solo se sei forte – a oggettivizzare te stesso, il tuo corpo, il tuo spirito in un’opera di allontanamento dal sentimento, di differenziazione dal mondo, semplificazione automatica della propria morte – un’attività che è anche distacco dalla propria ossessione per la vita, che è anche – nel paradosso più estremo – talvolta inerzia, abbandono, superamento dell’egoismo, indifferenza per la (falsa) speranza, volontà di annichilimento, di distruzione, inutilità, parossistico autocompiacimento, salvezza – quasi mistica – nella morte. D’altro canto, la morte illumina ciò che avremmo potuto fare e nullifica i nostri umani affanni svelando l’essenza, ciò che conta e ciò a cui abbiamo dato nel nostro transeunte navigare troppo peso: la conoscenza arricchisce ma può anche… ammazzare… poiché ti ruba il tempo, il tuo tempo. La vita è una involuzione, un retrocedere, un annientamento – e sarebbe bello se si nascesse da morti, belli e fatti, solo così l’evoluzione sarebbe una vera evoluzione e non una degenerazione.

                    Anche se in questa stupida società di astratti cliscé, affermarlo sembra assurdamente scorretto, Manuel – come tanti altri ignoti militi della stessa guerra – è stato veramente un eccezionale guerriero – non in senso melenso e sentimentalistico, neppure in senso romantico. Un guerriero in senso romano, classico: fredda consapevolezza del proprio destino; proseguire – nonostante la sconfitta sia certa – la lotta; conservare sino agli ultimi giorni la lucidità; conservare sino agli ultimi giorni la dignità. Si chiama senso dell’onore, anzi pratica dell’onore. Si chiama contestare il sistema e i suoi fiacchi burattini con i fatti, si tratta di rantolare senza far cascare l’anima, si tratta di stare in piedi dentro incuranti delle marcescenti macerie del mondo. Si tratta infine di sublimare nel mezzo-morto l’uomo che non muore. Pertanto Manuel addio, ma anche grazie perché ora lo sappiamo, si può morire anche come hai fatto tu:

                    ”Mi preparo serenamente e in coscienza, in buona coscienza, a lasciare nel migliore dei modi possibili questa vita. Senza tragedie, senza star troppo male… fedele al legionario che insiste sulla postazione perduta ormai per sempre”.

                    ...ma di noi
                    sopra una sola teca di cristallo
                    popoli studiosi scriveranno
                    forse, tra mille inverni
                    «nessun vincolo univa questi morti
                    nella necropoli deserta»

                    C. Campo - Moriremo Lontani


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                      Io non ho parole ...

                      Torno dopo anni ed anni di assenza dal Forum per cercare appunto te, chiederti consigli su come riprendere forma con una delle tue schede, e scopro questo ... che te ne sei andato, e soffrendo molto pur dimostrando uno Spirito Eroico (in tutti i sensi, storici e filosofici, che questo termine sottende) che ho sentito in pochissimi altri.

                      Che dire Manx, ricordo una nostra discussione telematica extraforum di una decina di anni fa, su Yukio Mishima. Citasti una sua frase famosa, ovvero ''Vivere o morire? E' un dettaglio Occidentale''.
                      Voglio immaginarti, ora, Libero, Eterno e Completo, a vedere e conoscere di persona molte delle Domande (con la D maiuscola voluta) che ti sei sempre posto in vita. E finlamente libero da ogni dolore.

                      Non voglio tornare regolarmente attivo qua sopra e non lo farò (non ho nemmeno più l'account storico nè vorrei), ero solo passato per salutare i pochi vecchi amici rimasti, ed uno di questi saresti dovuto essere tu.

                      Ciao Manuel

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                        Grazie, Larry, per quel tuo post. Ti mando un abbraccio.
                        ...ma di noi
                        sopra una sola teca di cristallo
                        popoli studiosi scriveranno
                        forse, tra mille inverni
                        «nessun vincolo univa questi morti
                        nella necropoli deserta»

                        C. Campo - Moriremo Lontani


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                          Ancora la rivista L'Intellettuale Dissidente. Ancora una superba recensione. Dopo il Diario, tocca al libro su Junger:

                          ________________________

                          Ernst Jünger Reload

                          Con geniale originalità Manuel Rossini si imbarca in un viaggio filosofico per scandagliare la nostra epoca

                          Non è da tutti scrivere col sangue insieme ai Grandi evitando di strapparsi gli occhi. Non è da tutti reinventare il linguaggio per far rivivere nella casa dei lemmi l’Erlebnis e, in questa perigliosa frequentazione di sé, la filosofia nel suo più autentico, puro, conturbante, dialettico travaglio. Queste rare e nobili cose le sa fare però Manuel Rossini. Perciò, poiché le parole raccontano già la sua genialità e originalità, non c’è quasi bisogno di tirare in ballo l’aspetto più sconvolgente della sua esperienza vitale: scrivere quando si è malati di cancro e si è pressoché certi che la propria opera uscirà postuma.

                          Nel suo ultimo libro – Ernst Jünger Reload – l’autore intende scandagliare la nostra epoca (non solo il contingente e transeunte “oggi”) alla luce delle intuizioni del solitario di Wilflingen – e in seconda istanza di Simmel e di Foucault. Questi filosofi – insieme a Heidegger, Löwith, Weber, Agamben, Esposito… – sono i compagni viaggio, gli s-copritori di una verità che si dona quando si nega. Già, perché l’opera di svelamento presuppone sempre uno spiare sotto le gonne dell’evento, che non è mai un arrivare, un giungere alla meta, un centrare.

                          E questo Manuel lo sa, non si tratta di inquadrare da lontano l’oggetto. Non si tratta di piegare la cosa alla durezza dell’Intelletto, non si tratta di rivestire la verità dopo averla violentemente spogliata, non si tratta di incatenarla al letto della scienza e di violarla senza mai essere stati con lei una sola cosa. Si tratta viceversa di amarla, di porsi in sintonia con lo srotolamento del tappeto, si tratta di ri-levare leimpercettibili orme del sottobosco, il conio delle forme, l’Arché dietro il fenomeno, si tratta di accarezzare la pelle sotto il vestito, non di imporre una armatura di ferro, una cintura di castità.

                          Ma cosa è che si concede nel camuffamento, cosa è che stavolta si mostra mascherandosi? È principalmente la Mobilitazione Totale che a sua volta è funzionale – in un rapporto di reciproca dipendenza – al biopotere. Il biopotere è, come dice la parola, il potere sulla vita, ma è anche il potere di una forma di vita ed è il mutamento di un paradigma di Dominio – è la totalitaria e spesso occulta capacità del potere di piegare alle proprie disumanizzanti esigenze tutti i suoi ignari soldatini, è la forza che, “a caro prezzo dell’umano”, “ri-produce la vita”. Tale potere che priva l’uomo della sua irripetibilità e che lo rende schiavo proprio nel momento in cui egli crede di essere massimamente libero, si dipana sempre quale inarrestabile potenza organizzativa. E non importa il motivo della mobilitazione – non importa che questa avvenga in uno Stato esplicitamente totalitario o per così dire democratico, non importa che ci sia Mussolini a torso nudo sul trattore o il Presidente della Repubblica alla TV in abiti austeramente borghesi: il fine non sono affatto loro.

                          Non importa che la massa sia mobilitata intorno all’idea politicamente corretta della difesa dei diritti umani o a quella pubblicamente abborrita della guerra – importa solo che sia mobilitata, plagiata, forgiata, formata, indirizzata. Importa che l’informe diventi una costruzione (costrizione)organica in cui le parti sono però interscambiabili, importa che le parole dell’Ordine siano sempre le stesse, che siano sempre e dovunque ripetute, nei luoghi del potere come nelle nostre case, nelle fabbriche, specialmente nelle scuole, nei social, in ospedale, alla posta, al mercato, dappertutto, in tutto il pienata (“il biopotere è il pianeta”). Importa non che le parole del potere siano vere, non che siano autenticamente buone, ma che siano tras-messe, spinte con luciferina violenza dentro di noi, nella nostra carne, nella nostra bocca, in fondo al nostro sangue. Manuel scrive che se un tempo il potere uccideva i dissenzienti e faceva vivere gli obbedienti, ora il parametro della sua espansione inarrestabile è un altro: “far vivere e lasciar morire” – e tale principio si collega sempre col dispositivo “inclusione/esclusione”. Il biopotere è infatti oramai talmente forte che non ha in generale – ma esistono pure le eccezioni – bisogno di uccidere: basta imporre implicitamente il costume del tempo e chi non lo vestirà sarà buttato giù dalle scale, tutti lo indicheranno, vivrà nel ripostiglio della società, nella gattabuia di una etichetta – e sarà paria, reietto, vituperato, allontanato:

                          “Chi è escluso dalla società totale è incluso nel Lager, dove viene a trovarsi in una nuova realtà costruita ad hoc solo per lui”.


                          L’inclusione – parola manifesto di ogni attuale campagna educativa – esclude che si possa essere dissidenti senza alla lunga rischiare se non la pelle l’assoluto isolamento, finanche la stima conquistata negli anni, finanche l’amore di alcuni, l’amicizia, la famiglia, il lavoro (lascia morire, non ti preoccupare di uccidere, la morte verrà da sé e avrà gli occhi del biopotere!). Far vivere significa ri-creare la vita, vale a dire concedere una nuova esistenza de-umanizzata a chi accetta idee, principi, modi di fare e di essere imposti dal biopotere; lasciar morire (escludere senza uccidere fisicamente) indica invece lasciare che si spenga da sé chi non rinuncia alle proprie peculiarità individuali, chi non accetta di essere solo Lavoro, chi nei media non ripone alcuna fiducia, chi nei palazzi delle istituzioni non vede santi, chi custodisce il diritto di non credere, di non assentire, il diritto di dubitare, di sentire e di pensare. Siamo davanti a un mutamento ontologico, cosmologico che “si muove alla base del mondo”, che concerne l’essere nella sua globalità – e solo per questo antropologico.

                          Il biopotere “sforna infinite riproduzioni perfettamente identiche”, sforna copie di sé, zombies ri-prodotti in serie perché solo rendendo tutto e tutti uguali il dominio può essere totale
                          . Così la magia si realizza, così la tecnica è forza cultuale, forma di vita che da sotto regola l’agire, astuzia che si ciba dei nostri desideri, che crea nuovi inutili bisogni, volontà che si ciba delle nostre volontà, che crea false volontà, delle nostre individualità. Così esiste un solo spirito, un solo sentire, un solo morire: una sola maschera, un unico processo di totale travestimento che smussa le differenze tra gli individui, tra gli ambiti, tra i ranghi, tra i ruoli, tra i sessi. La cosalizzazione dell’uomo, l’ossessione per la corporeità, la spettacolarizzazione del dolore, la rete che imbriglia le anime, la pubblicità senza confini, il mezzo che si fa messaggio, l’ambizione alla salute assoluta, la religione del Lavoro sono veicolati di continuo attraverso infiniti mezzi tecnici – “tutto si riduce a una prestazione tecnica, automatica, calcolata con precisione”. Il testo di Manuel non ha solo una istanza sociologica (tratta forse da Simmel) e squisitamente metafisica, ma anche prettamente estetica. Infatti è attraverso l’illustrazione delle immagini del Sillabario di Jünger e Schultz nonché attraverso l’esegesi delle figure che quotidianamente ci assediano che il filosofo ha modo di vedere – come sé l’immagine fosse platonicamente l’aspetto sensibile della idea – il tocco di qualcosa che trascende l’estemporaneità della foto-grafia (scrittura di luce, ricorda Manuel).

                          L’arte – financo la sua degenerazione, financo l’effige tecnicamente riprodotta – racconta sempre, seppur filtrata, la verità; non solo, la ri-scrive immortalando inconsapevolmente l’essenza della mobilitazione che è il suo stesso essere passeggero, il mutamento, il paesaggio da cantiere. E la verità è ancora e sempre la stessa: la Mobilitazione Totale che, attraverso un linguaggio tecnico e tranquillizzante, trasforma tutto in Lavoro: è l’opera di normalizzazione del dominio, il mascheramento, il lasciar vivere. Il Lavoro è la stessa mobilitazione totale, è la mobilitazione che lavora, la dis-posizione della massa al movimento senza pensiero. Il Lavoro è forzare e spegnere la vita nell’ingranaggio tecnico, è una organizzazione meccanica che fagocita anche il tempo libero, il vizio, lo sport, il divertissement, che occupa completamente lo spazio amalgamando ambiti diversi. Il lavoro è guerra e la guerra è una forma del Lavoro. La macchina fotografica che punta l’oggetto è un’altra versione del mitra, il trattore che dissoda la terra secondo imperscrutabili volontà metalliche è l’alter ego del carro armato.

                          Il filosofo pre-vede le forze in campo come se fossero espressioni differenti della stessa istanza, della stessa forza, colori diversi e in continuo mutamento della stessa tavolozza. Il filosofo dissotterra le radici da cui si eleveranno gli alberi – corrotti – del presente. È così che la stessa situazione attuale – pandemia che assurge a principio di Mobilitazione Totale fornendo al biopotere l’occasione di imporsi totalmente – è letta nei suoi fondamenti, nelle sue linee di sviluppo prima ancora che si appalesi – già, Manuel è morto prima. È così che oggi – dopo Manuel – negli asettici luoghi dell’inquadramento sanitario si racconta, si sussurra dietro la copertura, la stessa storia, si comunica, si predica, la stessa cosa: Mobilitazione Totale, mascheramento, inglobamento: inclusione ed esclusione – e non c’entra affatto dissentire o assentire, c’entra solo vedere. Sì, perché il percorso era già stato tracciato, perché la Mobilitazione Totale era già tale, perché i potenti erano già pedine – e noi eravamo già schiavi. Ed è sufficiente leggere il seguente passo per capirlo:

                          “La nota asserzione di Schmitt (…) “sovrano è colui che decide sullo stato d’eccezione”, è superata nella “banale” constatazione del biopotere che oggi non esiste più nessuna eccezione, poiché ciò che lo era è diventato normale, è ora la regola, e l’azione del biopotere è l’espressione legittima e sovrana di questa autorità e normalità. Sovrano, quindi, non è chi decide, bensì chi normalizza lo stato d’eccezione e normalizzare l’eccezionalità significa enunciare il carattere bellico della pace e il carattere normale (pacifico!) della guerra”.

                          Ecco, Sovrano non è chi decide di imporre lo stato di eccezione; è Sovrano il processo della normalizzazione della perdita della libertà e chi, rotella da ingranaggio, ci fa abituare alla de-individualizzazione, chi uccide l’eccezione nella regola senza senso, chi utilizza le parole di guerra in tempo di pace, chi ci fa sentire sotto assedio, chi vuole sradicare dall’umano tutto il dolore, chi ci muove in un solo modo, il pifferaio più subdolo, lo stregone che non si vede: il biopotere che apre uno spazio globale, uno “spazio imperiale, smisurato” dove però non compare nessun Kaiser, Presidente o Re, uno spazio “autoreferenziale”, che “si controlla da sé”. Sovrano è chi occulta l’oppressione rendendola consuetudine. Sovrano è anche chi riesce a demolire gli individui nei ruoli, nelle de-finizioni, nelle categorie che nell’includere escludono. Sovrano è chi impone il bavaglio come normale, è chi impone un tipo di linguaggio come l’unico linguaggio, chi impone una sola verità, è chi – ancora una volta e per tanto tempo ancora – fa vivere e lascia morire.

                          Del libro di Manuel non colpisce solo l’incredibile capacità prognostica che ne fa un degno discepolo del “sismografo” Ernst Jünger, ma anche il coraggio – quello che forse si acutizza quando oramai non c’è più nulla da perdere e che, come scrive Luigi Iannone nella postfazione, lo fa essere, pur nella disperazione, incredibilmente “didascalico e puntuale”. Il coraggio che gli permette di andare oltre i suoi maestri – quasi fossero la stampella che invita a camminare da soli, quasi fossero solo un sostegno e fosse un dovere, poi, tenersi in equilibrio sulla corda, da soli, tesa sul rischio.

                          Come testimonia anche Giovanni Giorgini nella interessante prefazione, Manuel è filosofo perché ama la conoscenza e riconosce se stesso come figlio di mancanza. La sua tensione alla verità è totalizzante, viene da dentro, è malattia e cura, non si ferma neppure davanti alla morte, anzi la piega la morte alla trasfigurazione immaginifica e la filosofia torna a essere ciò che deve essere: tragica esperienza della vita, tragico abbellimento della ferita, sublimazione, onore, ardimento, poesia. Così Manuel ha la forza di dire a Ernst Jünger – certo con tanta amarezza – che il Lavoratore ha trionfato e che né il Ribelle né “l’Imboscato” riusciranno a ribaltare la situazione. La mobilitazione è totale, il biopotere ha vinto, combattere contro il sistema quando il sistema è dentro di noi è combattere contro se stessi sino all’autodistruzione – di sé, non del sistema.


                          Svanisce anche Manuel come tutti i figli del tempo. E il suo libro – nel presente immobile della totale mobilitazione del mondo – è come se non fosse mai stato scritto. Queste le note finali, le ultime considerazioni. Eppure, come un tesoro prezioso, il libro è ancora qui. E il mondo è ancora lì– proprio come l’ha descritto lui. Lui che si congeda così: “continua…” – e noi che diciamo di sì: continua tutto come hai visto tu.

                          Luca Caddeo: https://www.lintellettualedissidente...uF6IBYV2zVQ-Uo
                          ...ma di noi
                          sopra una sola teca di cristallo
                          popoli studiosi scriveranno
                          forse, tra mille inverni
                          «nessun vincolo univa questi morti
                          nella necropoli deserta»

                          C. Campo - Moriremo Lontani


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                            "Dov’è la differenza tra una coercizione dittatoriale ma v i s i b i l e e una coercizione ora mascherata da democrazia, libertà e progresso, quindi i n v i s i b i l e? Anzi, la coercizione subdola e invisibile imposta dal biopotere tramite misure di Mobilitazione Totale – che si camuffano da ideali democratici e da libertà – è ben più efficace, poiché l’uomo non percepisce questa dittatura come pericolo e oppressione, bensì come progresso e libertà."

                            Manuel Rossini, “Ernst Junger Reload” (pag 76). Ed. Ombrecorte: http://www.ombrecorte.it/index.php/p...nger-reload-2/
                            ...ma di noi
                            sopra una sola teca di cristallo
                            popoli studiosi scriveranno
                            forse, tra mille inverni
                            «nessun vincolo univa questi morti
                            nella necropoli deserta»

                            C. Campo - Moriremo Lontani


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                              Stasera ti ho citato, passo per un saluto. Sai, non ho mai finito il tuo libro. L'ho sfogliato, ho provato a leggere qualche pezzo ma non ce la facevo a continuare, così come evito i film sulle morti e le malattie. Però sei ancora lì, ammucchiato con un'altra decina di libri sulla sedia accanto al letto: è un modo per fregare il tempo, metterti in quel luogo di passaggio, tra le cose appena prese che non hanno ancora un posto. Perchè poi se a una cosa dai il suo posto, quello è il luogo in cui la dimentichi e diventa tempo, diventa passato.
                              Last edited by Arturo Bandini; 21-12-2021, 23:14:45.

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                                Tanti auguri caro Manuel, chissà se lassù si festeggia il Natale...qui manchi sempre tanto.

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